(C.Bott.) Nel 2020 ha vissuto in prima linea l’emergenza coronavirus. E l’ha vissuta anche in prima persona, essendo stata a sua volta contagiata dal Covid-19 nei primi mesi di quello stesso anno. Da gennaio 2019 a fine 2023 direttore generale dell’ASST “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo dopo aver ricoperto dal 2016 al 2018 lo stesso ruolo all’ATS della Montagna a Sondrio ed essere stata in precedenza direttore generale dell’Azienda ospedaliera Valtellina e Valchiavenna, quel nemico invisibile che aveva cambiato la vita di ogni italiano l’ha dunque conosciuto bene. E da molto vicino.
A distanza di cinque anni esatti dal diffondersi della pandemia e alla vigilia della Giornata nazionale in memoria di tutte le vittime del Covid Maria Beatrice Stasi ricorda quell’esperienza con un suo intervento pubblicato sul magazine Grandi ospedali, il giornale del management della sanità. “La lotta al Covid è stata per me la madre di tutte le esperienze - premette - Per un pezzo della mia vita si sono incrociate competenze e paure, esperienze e orizzonti sconosciuti. Non dimenticherò mei quei primi mesi del 2020. L’esperienza del Covid alla guida della ASST “Papa Giovanni XXIII” ha sottoposto a uno stress test il manager e la sua formazione, mettendo in evidenza competenze “inedite” poco esplorate ma meritevoli di grande attenzione, anche in chiave di umanizzazione delle cure e valorizzazione delle risorse umane”.
“All’inizio - spiega - fu difficile far capire non dico a Roma ma addirittura a Milano cosa stava succedendo a Bergamo, dove i casi di contagio crescevano con una rapidità impressionante. Nei primi momenti ci siamo attivati seguendo ogni indicazione che arrivava dai livelli superiori. Quello che non sapevamo è che dal 22 febbraio 2020, data in cui abbiamo istituito l’Unità di crisi del “Papa Giovanni”, la crescita del virus a Bergamo sarebbe stata esponenziale, mettendoci in grave difficoltà nel giro di pochi giorni”.
“Abbiamo scelto di raccontare tutto - osserva Maria Beatrice Stasi - di spiegare ciò che stavamo vivendo e vedendo con i nostri occhi con trasparenza e completezza. Forse anche questo ha contribuito a rendere il nostro ospedale una lampada accesa nel buio per chi si preparava ad affrontare una vera e propria bufera… La solitudine è la sensazione che ricordo maggiormente. E allora ci siamo protetti da soli. In quei momenti la nostra organizzazione ha sviluppato una dote importantissima: la flessibilità. Paradossalmente ci si immagina che durante un’emergenza serva un vertice che comanda e una base che esegue. Tutte storie, serve un vertice che c’è e un corpo di persone che sta con te, che condivide, che diventa un organismo “solido” e coeso. La flessibilità si è manifestata in tanti modi. Innanzitutto voglio ricordare il lavoro di decine di medici di area chirurgica che per settimane, essendo di fatto chiusa l’attività chirurgica programmata, si sono trasformati negli “specializzandi” di intensivisti, infettivologi, internisti, pneumologi”.
Scrive più avanti l’ex direttore generale: “Tante le emergenze di quei giorni della prima ondata in cui era necessario assumere rapidamente decisioni, come quella di assecondare le autopsie, nonostante fossero sconsigliate dal ministero. I dispositivi di protezione mancavano. Alcuni giorni avevamo mascherine e camici soltanto per mezza giornata. Partì una vera campagna di fundraising in cui a tutti coloro che ci chiedevano come potevano aiutarci chiedevamo di trovare per noi dispositivi di protezione. Persino l’elemosiniere del Papa ci fece avere mascherine dal Vaticano. Un’altra emergenza: al culmine della crisi l’impianto dell’ossigeno di un ospedale pur nuovo come il “Papa Giovanni” rischiava di collassare per l’uso abnorme in emergenza. In poche ore i nostri ingegneri, i nostri tecnici e il nostro fornitore furono in grado di allestire un impianto “volante” a supporto per evitare il crash che avrebbe messo a repentaglio la vita di centinaia di pazienti. Non solo medici e infermieri eroi, ma tutti indistintamente”.
E ancora: “In quei giorni a partire dal 23 febbraio 2020 per più di un mese le call, le telefonate e soprattutto le chat sono diventate il mezzo più rapido per restare connessi tra noi. Le conservo ancora gelosamente. Penso alla responsabile della sicurezza che controllava letteralmente l’uso dei dispositivi di protezione, alle infermiere “bad manager” con il compito davvero ingrato di trovare un letto a ogni paziente, alla referente sanitaria per la formazione che ha messo in piedi una “catena di montaggio” di corsi nel nostro auditorium “Parenzan” per non lasciare nessuno solo a chiedersi “che fare”. Penso alla direttrice delle professioni sanitarie, che con i suoi collaboratori riusciva a smontare reparti non Covid per allestire di giorno in giorno reparti Covid”.
Poi le considerazioni conclusive: “Nessuno si aspettava una tempesta simile. Sono seguite altre 4 ondate Covid nei due anni successivi, il “Papa Giovanni” ha inoculato 650.000 vaccini per combattere la pandemia. Abbiamo assicurato per sedici mesi l’operatività e la direzione dell’ospedale allestito alla Fiera di Bergamo. Abbiamo dato tanto, imparato ancora di più… Oggi, dopo soli cinque anni, è in corso una rimozione collettiva del dramma del Covid. Una rimozione forse comprensibile che ci viene spiegata da tanti esperti come reazione naturale di fronte a tanto stress e dolore. Per me, e per molti che hanno vissuto con me quei giorni, è impossibile dimenticare. Di più, per quanto mi riguarda non voglio dimenticare perché la storia ha bisogno di testimoni senza i quali la storia non esiste”.
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