Il colonnello Galdino Pini. |
Diversi sono i motivi per cui il colonnello Galdino Pino avrebbe potuto trovar posto nel presepe mandellese sul lago. Noi abbiamo scelto di pensare a lui come imprenditore che attraverso quel ruolo sceglie di aiutare persone che si trovano in difficoltà economica. Meglio sarebbe stato scrivere “che, anche attraverso il ruolo di imprenditore, sceglie di mettersi al servizio degli altri, del bene, in vari campi”, come ben ci dice la nipote Rosella Pini.
Sì, perché dopo aver combattuto nella grande guerra del ’15-18, di cui conservava ricordi dolorosi dei compagni caduti, congedato con il grado di tenente colonnello, torna alla vita civile, si sposa con Rosalbina Gerli, diventa padre e dopo qualche anno vissuto a Gorizia torna a Mandello dove ancora vivono i suoi genitori e dove vivrà fino al 1970, seminando bene e speranza.
Acquista la Gardata, una “sella” della Grigna allora spoglia, circondata da un bosco deciduo e, come prima espressione del suo amore per l’ambiente, si procura centinaia di larici e abeti rossi, impegnandosi personalmente nei week-end a seguire i lavori di piantumazione. Nel frattempo apre a Mandello, con il cognato Gerli, la “Litoxite”, una ditta di turaccioli di sughero, mettendo così a frutto il suo diploma di perito industriale ottenuto a Berna, dove aveva frequentato il locale istituto industriale insieme al fratello Virginio.
Nel 1924 fonda la sede mandellese del Cai e nel ’25 si fa promotore della fondazione di un gruppo di alpini in paese, che si concretizzerà nel ’27. Nella seconda guerra, dopo l’8 settembre, il colonnello Pini, la cui famiglia non aveva mai simpatizzato per il regime fascista, organizza un gruppo partigiano, del quale fanno parte anche i suoi figli Franco e Guido. La sua esperienza nella resistenza si conclude nel novembre del ’44, quando, ammalato di polmonite, dopo la fuga dalla Gardata, data alle fiamme dai nazifascisti, attraverso la Val Mala giunge ai Piani Resinelli, per nascondersi poi in un rifugio di proprietà vicino a Somana, ma viene catturato e incarcerato a San Vittore a Milano.
Un periodo particolarmente difficile, questo, per Galdino Pini: il rischio della fucilazione, il pensiero dei figli Franco e Guido alla macchia, il figlio Gianni prigioniero in Germania, dopo la campagna di Russia, la moglie Rosalbina con i figli Alfredo e Alma rifugiati in Valsassina da una famiglia amica. Al termine della guerra esce dal carcere e fa ritorno a casa.
A Mandello, grazie anche alla buona conoscenza della lingua tedesca e alle capacità di controllo, svolge il ruolo di mediatore nella resa dei nazifascisti, evitando anche ritorsioni e vendette nei confronti di famiglie che avevano appoggiato l’occupazione. Tutto sembra ricomporsi, ma la vita gli riserverà ancora diversi drammi in famiglia. Ciononostante continua a essere di aiuto a molti e - a scriverlo è ancora la nipote Rosella, che ringrazio per questa testimonianza - a rivolgere “il suo sorriso triste ai nipoti, ai quali ha raccontato soltanto qualcosa della sua lunga e travagliata vita”.
Ci sono ancora mandellesi che ricordano il bene che il colonnello Pini ha fatto a tante persone, anche attraverso il lavoro alla “Litoxite”, per tutti, allora, i büsción. Le maestranze erano soprattutto al femminile, pochi gli uomini e generalmente di Somana, dove c’era la casa di famiglia dei Pini. Fra questi c’era anche “èl Paulén”, che a Somana era approdato venendo dalla Valle Imagna dopo un passaggio a Onno, dove aveva fatto il giardiniere per famiglie locali. In famiglia ho sentito raccontare tante volte questo simpatico episodio che lo vede protagonista. Dalla ditta, scorge un uomo sbattere i tappeti alla finestra di una casa vicina e si meraviglia, perché a quei tempi queste incombenze erano appannaggio esclusivo delle donne. Allora chiama le colleghe: “Venite, donne, venite a vedere: c’è un uomo che sbatte i tappeti”.
Personalmente considero quello narrato non tanto un fatto folcloristico quanto una testimonianza, gradevole, di come il clima in quella fabbrica fosse familiare, tanto da permettere a uno dei dipendenti di chiedere alle compagne di lavoro di soprassedere per un momento al loro dovere. La conferma mi viene da una mia cugina over 90, Marisa, che ricorda come fosse stata assunta a 13 anni alla “Litoxite” perché la sua mamma era rimasta vedova con tre figli, di cui lei era la maggiore, che doveva salire su uno sgabello per arrivare alla macchina a cui lavorava e che, con una nota di commozione, ricorda che il colonnello Pini ogni tanto la chiamava e le diceva: “Sei la più piccola, qui. In casa c’è mia moglie Rosalbina da sola, stacca un po’ dal lavoro e vai a farle compagnia”.
Lui, che nella convalescenza dopo la prima guerra aveva trascorso un periodo ad Agliè in una residenza reale con altri ufficiali, in un contesto sociale elevato, e che veniva da famiglia nobile, riusciva a mettere a proprio agio tutti, anche una ragazzina. Era un vero democratico, il colonnello Galdino Pini!
È sempre la nipote Rosella a scrivere, parlando degli anni ’20 del secolo scorso: “Anni difficili quelli, la sua famiglia è preoccupata per gli eventi politici in atto: da uno scritto ritrovato dietro un ritratto fotografico leggiamo a firma del padre di Galdino, Giuseppe, farmacista del paese: “Tempi duri per la patria nostra, ovunque aria sovversiva” E poi, per dare un tocco di leggerezza, “Chi mi legge, sa di me? Dall’Aldilà gli fo ciao e si goda la vita meglio che può”.
Mi piace pensare che il colonnello Galdino Pini - che in terra ha vissuto molti dolori e preoccupazioni, ma ha anche raccolto tanti meriti - insieme al padre Giuseppe, dall’Aldilà ci faccia ciao. E che in molti, anche fra chi magari sta cominciando a conoscerlo attraverso questa breve storia, gli risponda con un pensiero affettuoso.
Adriana Lafranconi
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