01 gennaio 2025

Ritratti mandellesi. Don Giuseppe Castelli, rigorosità e coerenza l’eredità lasciata ai suoi parrocchiani

Dal presepe “de Mandel bass” allestito alla Canottieri Moto Guzzi un altro personaggio. E un altro “ritratto” a cura di Adriana Lafranconi. E’ il turno dell’arciprete don Giuseppe Castelli, che fu alla guida della parrocchia mandellese di San Lorenzo dal 1952 al 1974.

“Rigorosità” e “rigidità” nella forma hanno una qualche somiglianza, a partire dalla R, comune lettera iniziale. Analogamente si può dire di “coerenza / caparbietà”, con quella C d’apertura. E rispetto al significato? Mi pare che il confine tra il primo e il secondo termine, all’interno di ciascuna coppia, sia piuttosto sottile, tanto da comportare il rischio di poter scivolare facilmente da una parte all’altra.

Un’eventualità di questo tipo deve aver toccato anche l’arciprete Giuseppe Castelli. Non solo mi pare ancora di vedere la sua perpetua, la storica Assunta: piccola, con i capelli sempre raccolti in modo ordinato, sempre vestita di scuro, penso per rispetto della sua vicinanza a un ministro della Chiesa. Mi pare anche di risentirla, mentre diceva: “Glielo ripeto spesso: signor arciprete, quando ha qualcosa sul gozzo, si sfoghi con me prima di andare in chiesa, altrimenti poi si arrabbia davanti a tutti… E poi la gente la critica.” Grande donna, la piccola Assunta, che aveva così a cuore il buon nome del suo arciprete da proporsi anche come valvola di sfogo delle sue intemperanze, che certamente non sono mancate, ma che mi pare non abbiano offuscato quella rigorosità - manifestata nel proprio comportamento e attesa in quello altrui - e quella coerenza fra pensiero e azione che tutti coloro che l’hanno conosciuto ancor oggi sono disposti a riconoscergli.

Qualche esempio? Per tanti anni si impegnò il parrocchiano Arnaldo Zucchi per fare bella la chiesa di San Lorenzo e per i vari preparativi dei riti settimanali e delle celebrazioni nelle grandi occasioni, già quando era arciprete don Castelli. Un giorno questi gli disse: “Arnaldo, forse ti sei chiesto perché non ti ringrazio mai per tutto quello che fai. Ma te lo posso spiegare: se ti ringrazio io, ti tolgo una parte dei meriti che il Signore ti riconoscerà al termine della tua vita terrena. Non si può essere ringraziati due volte per lo stesso servizio. Molto meglio dunque, per te, che ti ringrazi Dio”.
 
Una parrocchiana di San Lorenzo ricorda ancora lucidamente un particolare del suo matrimonio, anno 1957. A quei tempi l’offerta che si doveva alla chiesa per i vari riti era stabilita: un tanto per un battesimo, un tanto per un funerale, un tanto per il matrimonio… L’ammontare della quota, in quest’ultimo caso, derivava da una serie di voci diverse, fra cui la somma dovuta per il ruolo dell’arciperete e quella, immagino inferiore, per quello del vicario. La nostra sposina aveva dunque consegnato quanto stabilito dalla consuetudine. Ma il coadiutore (che allora era don Renzo Beretta, del quale a Mandello sono in molti a ricordarne la morte, per mano di un giovane che lui aveva tanto aiutato) non aveva potuto essere presente alla cerimonia, perché nel frattempo trasferito in altra parrocchia. L’arciprete andò un giorno di persona a casa della sposina, per restituirle la parte di quota che era stata versata per il vicario. Lei ebbe il suo bel daffare per riuscire a convincerlo a lasciarla alla Chiesa.

E c’è un’altra sposina - questa volta siamo nel 1974 - che conserva un bel ricordo della vicinanza dell’arciprete per il suo matrimonio: il momento in cui se lo trovò sulla porta di casa, venuto a consegnarle una corona del rosario come augurio per un futuro coniugale dove la preghiera avesse spazio adeguato. Quella ero io. Scrive Takashi Paolo Nagai, in Ciò che non muore mai, a proposito della fede della gente di Urakami, un sobborgo di Nagasaki, dove i cosiddetti cristiani nascosti preservarono la fede in clandestinità per circa 300 anni: “La preghiera preferita dagli abitanti di Urakami era il rosario…. Quella gente recitava così spesso il rosario che i grani di metallo erano tutti lucidi e le catene mai intaccate dalla ruggine.” In cinquant’anni di matrimonio noi certamente non abbiamo consumato la corona del rosario dono dell’arciprete, ma il suo invito non è stato dimenticato.

Anche un chierichetto dell’epoca testimonia i valori per cui l’arciprete Castelli è entrato a far parte del nostro presepe. Tra i suoi ricordi, quello delle visite ai vari santuari dove lui accompagnava il gruppo di chierichetti, con il loro responsabile, che allora era Pierluigi Besana, la rigorosità, al limite dell’invadenza, nel prepararli all’esame di coscienza per la confessione, i doni che lui preparava come riconoscenza per il loro servizio per la chiesa. E qui il suo racconto si fa più dettagliato.

Nella casa parrocchiale, al primo piano, c’era una grande sala dove stavano esposti, in numero assai elevato, i giochi e i giocattoli da meritarsi, a suon di punti. Su ognuno di essi era indicato il punteggio da raggiungere per poterne entrare in possesso. E c’era anche una tabella a indicare i punti meritati per ogni servizio: 4 per la prima messa; 1 per quelle in orario meno disagevole, 3 per un matrimonio, 2 per un battesimo, 10 per le rogazioni… La trasparenza e l’imparzialità erano garantite. Il nostro testimone racconta che una volta mise gli occhi su una scatola con timbri delle lettere dell’alfabeto: nientemeno, pur su scala minore, che il complessino tipografico di Freinet, che contribuì a rinnovare la didattica della lingua scritta nelle scuole.

Messa dopo messa, battesimo dopo battesimo, lui mise insieme il punteggio necessario e si portò a casa la sua stamperia, con cui imparò a comporre parole e frasi. In quegli stessi anni, erano in vendita dei ghiaccioli, con il bastoncino di legno, come usa ancora oggi. Ma allora, di tanto in tanto, sul bastoncino stava impressa una scritta, che compariva quando il ghiacciolo era stato succhiato: omaggio. Chi la trovava, aveva diritto a riceverne un altro gratis. Il nostro chierichetto si era a un certo punto accorto che i suoi caratteri di stampa erano, se non identici, certamente molto simili a quelli avuti in dono dall’arciprete. Con un po’ di pratica, non gli fu difficile mangiare ghiaccioli gratis. Scommetto che se l’arciprete fosse venuto a saperlo, non si sarebbe limitato a redarguire il ladruncolo, ma si sarebbe in qualche modo incolpato di aver contribuito, pur inconsapevolmente, a metterlo in tentazione. E avrebbe chiesto al Padreterno perdono per la propria leggerezza.

Ci sta bene, per alleggerire il profilo dell’uomo tutto d’un pezzo, qualche narrazione di differente spirito. Di una mi ha fatto dono una carissima amica che a Mandello ha vissuto fino al matrimonio; parlando del “ginèe” e della mitica Elvira Frattini che ai Mulini ne era la regista, tanto da meritarsi a suo parere la nomination per essere inserita in un prossimo presepe, collega a questa tradizione lo stesso don Castelli. Mi scrive infatti: “Anche il nostro arciprete veniva a vedere il falò e ci chiedeva di indovinare il nome dei santi. Il più difficile era Omobono. “Inizia con O e finisce con O” diceva, ma nessuno se lo ricordava mai, e lui se la rideva. E non era uno che se la ridesse spesso. Chi indovinava il nome aveva in premio una caramella che lui toglieva dalle sue profonde tasche, che poi svuotava, accontentando tutti noi che gli stavamo attorno come api sul miele. Sono sicura che anche lui fosse molto contento di quei momenti. Forse pensava: “Lasciate che i pargoli vengano a me.”

Dell’altro fatto, quasi osé, sono stata testimone diretta. Era il 19 marzo 1974, lo ricordo bene perché l’omelìa di don Castelli ebbe per oggetto la figura di San Giuseppe e in quel week-end, per conoscere quel ramo del Lago di Como - lo documenta un filmino in Super8 - era venuta dal Bolognese una delegazione di amici di quello che sarebbe diventato di lì a pochi mesi mio marito. Siamo dunque alla predica e l’arciprete, a un certo punto, cita la prima lettera ai Corinzi: “Come il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo”, ma poi, mosso dal desiderio di lasciare ai fedeli un messaggio incisivo, continua la riflessione: “Nel corpo ci sono membra nobili e membra meno nobili; le nobili sono quelle che lavorano di più, le meno nobili quelle che lavorano di meno”. Poi si lancia in un’appassionata disamina, finendo col chiedere ai presenti: “Qual è secondo voi il membro più nobile?”. Mentre i puri riflettono seri, qualcun altro, tra cui i miei amici, ammicca. Nel frattempo lui conclude: “È il cervello il membro più nobile, perché fa lavorare tutti gli altri”.

Ma la predica non è ancora conclusa e l’arciprete porta l’assemblea a riflettere, sull’esempio di San Giuseppe, sull’importanza del lavoro, che ha anche il merito di allontanarci da rischi vari, chiosando alla fine: “Sì, il lavoro è il preservativo del peccato!”. Uno scivolone questo, sul piano linguistico, dell’arciprete. Non è la stessa cosa parlare, al plurale, delle “membra nobili” e, al singolare, del “membro nobile”, così come non è la stessa cosa sostituire all’espressione “preservare dal peccato” l’altra: “il preservativo del peccato”. Dovettero averlo pensato anche due dei miei amici presenti a quella messa, che a quelle parole si chiesero, all’unisono: “Che cos’ha detto?”, accompagnandosi con uno sguardo sornione che, tanti anni dopo, per la precisione nel 2011, avrei rivisto sui volti di Sarkozy e della Merkel. Come molti certamente ricordano, durante una conferenza stampa congiunta al Consiglio europeo a Bruxelles, mentre si parlava delle riforme che vari Paesi, fra cui l’Italia, avrebbero dovuto attuare per migliorare l’economia, interpellati da una giornalista che voleva sapere se erano stati rassicurati in merito da Berlusconi, i due si guardarono con una mimica che manifestava il loro pensiero molto più di una possibile risposta verbale.

All’arciprete Castelli, mentre gli cucivo la cotta e gli modellavo il cappello tricorno, ho raccontato di quella sua omelìa e delle successive considerazioni. Mi è parso di aver sentito la sua risata, simile a quella che, secondo la mia amica, si concedeva attorno al falò.

Adriana Lafranconi

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