Ecco la seconda parte del ritratto di Eugenio Lafranconi, “èl Geni”, scritto dalla figlia Adriana a chiusura della carrellata dei mandellesi ai quali è stato idealmente dedicato il presepe allestito alla Canottieri Moto Guzzi di Mandello Lario.
Non sono soltanto, o tanto, i fatti importanti a portarmi a definire mio papà altruista. Mi ha ricordato pochi giorni fa una mia collega che, verso la fine degli anni Settanta, aveva perduto il battello con cui lei e il suo bambino di pochi anni avrebbero dovuto raggiungere sull’altra sponda la nonna. Mio padre, che della riva faceva un po’ la sua seconda casa, se n’era accorto e, pur non conoscendola, si era offerto spontaneamente di accompagnarla in barca, a remi.
E come non ricordare qui un suo grande amico, Costante Poletti, per tutti “èl Tanto”, che, incontrandomi anche diversi anni dopo la morte di mio padre, mi raccontava in modo dettagliato quanto, entrato alla Moto Guzzi, da lui fosse stato aiutato per imparare a lavorare al meglio e come avessero condiviso insieme con reciproca collaborazione le sfide di canottaggio.
Chi ai suoi tempi bazzicava piazza Imbarcadero lo ha senza dubbio visto regalare i pesci che con gusto andava a pescare a tutti coloro che, trovandosi a passare di lì, dimostrassero di apprezzarli, anche se sconosciuti. Non per nulla, nel presepe mio padre porta proprio i pesci in dono. Ancora adesso ci sono figli di un suo amico, un altro Lafranconi, ma di quelli “del noce”, maggiori di me, che mi parlano del “Geni” che andava a casa loro portando un bel luccio, o i cavedani, o le alborelle.
E la piazza lui la spazzava, lo fece persino l’ultimo suo giorno di vita perché gli piaceva vedere bello il proprio paese, senza chiedersi se toccasse al privato o all’amministrazione tenerlo pulito. E parole donava, di saluto, di cronaca, di scherzo, a tutti. Alla sua morte, improvvisa, l’avvocato Franco Necchi scrisse una poesia su di lui. Non sono mai riuscita ad averne il testo scritto, ma ricordo, per averla letta allora, l’espressione “la sua voce salmodiante a nativi e foresti”. Quel raffinato “salmodiante”, quell’abbinare i nativi ai foresti - mi sembrano proprio quelle le scelte lessicali impiegate per descriverlo - avevano alla mia mente e al mio cuore reso fedelmente l’idea del “Geni”.
È l’ultimo personaggio della galleria del presepe, ma mi piace ricordare che lui ha avuto occasioni di relazionarsi con tutti gli altri, con qualcuno di più con altri meno. “Ciao, Luigi” - “Ciao, Geni” sono stati una sorta di punteggiatura della giornata fra lui e “èl Petülén”, per una vita. Per i gatti della Lucia ha vestito i panni di “vicario” del veterinario. Suor Camilla, con le sue consorelle, ha mangiato per tanti autunni le “burolle” cotte dal “Geni”. Con il dottor Stea sono state infinite le occasioni di incontro, per motivi vari, oltre il rapporto “medico-paziente”.
Della stima con cui guardava alla maestra Stucchi per la sua scelta di intraprendere gli studi dopo il lavoro in filanda ho già detto in quella storia. E sicuro era il saluto che rivolgeva, penso più caloroso alla Rosina Monti, meno all’arciprete, di cui forse ha visto più gli scivoloni nelle intemperanze che la rigorosità e la coerenza di cui ho scritto io. Con Galdino Pini non ha condiviso esperienze particolari, ma siccome nella casa del colonnello avevano abitato anche amici e conoscenti di mio padre, mi è facile immaginare che tante volte abbia scambiato con lui qualche battuta, certamente manifestandogli la propria stima.
A ogni mattina di Natale non mancava a due appuntamenti: il giro al cimitero per salutare i suoi morti, per poi passare a fare gli auguri alla “Laura Pelüca” - come amavano ricordare le sue figlie - soprattutto quando, anziana, era per lei difficile uscire di casa. Una buona rete, non c’è che dire.
Come per tutti gli altri protagonisti di queste storie anche lui aveva i suoi limiti. È mia mamma a raccontarceli. A un controllo dopo un intervento di ulcera allo stomaco, al chirurgo che l’aveva operato, il professor Lijoi, che con soddisfazione sottolineava il buon esito della convalescenza, lei gli aveva detto: “Gli ha tolto tutta la parte malata, ma gli ha lasciato qualcosa che avrebbe proprio dovuto togliergli”. E al medico che la guardava con aria interrogativa, lei aveva risposto: “Il nervoso”.
Faceva tanto per la sua famiglia, mio padre, ma pretendeva di avere tutto lo spazio per i suoi vari hobby e mia madre su questo non era proprio del tutto d’accordo. Quando voleva sottolineare questo suo difetto, lei mi ripeteva sempre la stessa storia: “Quando sei nata e la levatrice Balbiani ha detto che eri femmina, lui che aveva sperato, almeno questa volta, in un maschio, aveva commentato: “Non fa niente, è andato tutto bene”. Ma - questa era sempre la sua chiosa finale - dopo due o tre ore ha preso i suoi uccelli da richiamo e se n’è andato a caccia a Caprante”.
Dal canto mio, penso che mio padre mi sia sempre stato molto vicino. Non ho da rimproverargli assenze. Negli anni della scuola elementare, all’uscita verso mezzogiorno, mi piaceva andare incontro a lui, che allo stesso orario tornava dalla Guzzi per la pausa pranzo. Ci trovavamo più o meno all’altezza della casa di un suo carissimo amico, Pino Micheli, in via 24 Maggio, e appena mi vedeva lui mi salutava con un affettuoso èl mè picèt, poi mi prendeva sulle spalle, anche quando ormai ero in quinta, e così, insieme, ce ne andavamo a casa. All’ingresso, quando passavamo sotto un piccolo arco, basso, lui doveva sempre chinarsi per non farmi battere la testa. Questa volta, l’inchino l’ho fatto io a lui. Ve l’avevo detto fin dall’inizio.
Adriana Lafranconi
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