05 gennaio 2025

Ritratti mandellesi dal presepe. Eugenio Lafranconi, altruismo e generosità hanno ispirato la sua vita

Eugenio Lafranconi, "èl Geni", in una foto che gli era stata scattata da Nino Lozza.

E’ l’ultimo ritratto, sempre a firma di Adriana Lafranconi, dei dieci personaggi mandellesi raffigurati nel presepe “de Mandèl bass” allestito alla Canottieri Moto Guzzi di Mandello Lario. E' il ritratto del "Geni", suddiviso in due parti. Quella che segue è la prima.

Sarò certamente di parte in quest’ultima narrazione, il cui protagonista - “èl Geni” - è, per chi non lo sapesse, mio padre. Ma sono certa che questo tributo alla sua figura non sia soltanto frutto dell’amore filiale.

Credo di non essere smentita se affermo che non si sia mai visto a Mandello, a quarant’anni e più dalla sua morte, un funerale con tanta partecipazione per una persona non pubblica, quale lui era: operaio alla Moto Guzzi. San Lorenzo era così gremita che una mia collega, l’indomani, mi aveva detto, proprio per sottolineare il fatto che in moltissimi erano venuti a salutarlo: “Noi eravamo stipati dentro il confessionale, perché non c’era altra possibilità di un posto in chiesa”. Penso che quanto verrò narrando possa costituire spiegazione di questa eccezionale presenza.

Primo ricordo: nel lettone lui mi raccontava due storie, sempre le stesse - quella del lupo e della volpe che vanno a rubare il latte a casa di un contadino e quella di un uomo che va a rubare frutta su un albero ma cade, si ferisce e bisogna chiamare il dottor Stea per suturarlo - che avevano un’unica morale: le cose degli altri non si toccano. Benché la varietà delle narrazioni fosse praticamente nulla, quello spazio per me era magìa: io e lui soli, mentre nel gineceo della cucina la mamma e le mie sorelle maggiori erano impegnate a lavorare a maglia, a ricamare, a fare chiacchiere.  A questa magìa se ne aggiungeva un’altra il mattino successivo, quando mi risvegliavo nel mio letto, senza sapere come ci fossi arrivata, perché lui aspettava che mi addormentassi al suo fianco per prendermi in braccio e portarmi nella mia camera.

Si era poi aperta un’altra stagione: quella dei racconti di guerra, che allora per me, che di anni ne avevo ancora pochi, stava a metà strada tra la fantasia e la realtà. Lo risento: “Quando al tempo di guerra la sera vedevo in piazza qualche giovanotto e capivo che non aveva un posto dove passare la notte non gli chiedevo se era un fascista o un partigiano o un disertore: per me era il figlio di una mamma che a casa pregava perché lui tornasse. E allora lo invitavo a dormire a casa nostra”.

A quei tempi le categorie del fascista, del partigiano, del disertore a me non erano per nulla chiare. Non sapevo ancora distinguere chi fosse dalla parte del torto e chi della ragione, ma non avevo dubbi che lui incarnasse il ruolo del buono che non manca in nessuna fiaba. Se posso permettermi una battuta, nella fiaba a questo proposito non mancava neppure il cattivo. Così ai miei occhi di allora appariva mia mamma che, appena il papà chiudeva bocca su questa sua scelta, puntualmente ripeteva: “Sì, lui portava in casa gente che non sapevamo neppure chi fosse, che si metteva a dormire sul divano nell’ingresso e io, dall’altra parte della parete, passavo la notte in bianco per timore che potesse capitare qualcosa”.

Immagino che anche lui provasse timore e paura ma non vi soccombeva, quando decideva, soprattutto approfittando della foschia nelle notti umide, sempre durante la guerra, di traghettare con la sua barca sull’altra sponda giovani che avevano bisogno di fuggire. Tante volte mi ha raccontato che per tornare indietro in tempo, senza correre il rischio di incappare nei tedeschi, essendoci il coprifuoco, doveva sperare che soffiasse la breva, perché in tal mondo, seguendone le onde, era sicuro di remare verso Mandello, magari arrivando a Olcio anziché a casa nostra, all’imbarcadero. Problematico arrivarci con il lago calmo.

Sempre per restare in tema, quando il 30 dicembre del ’43 si era verificato lo scontro fra partigiani e carabinieri in piazza Imbarcadero (di cui ho già detto nella storia dedicata a “Laura Pelüca”) lui, uscendo sul pianerottolo al primo piano, si era trovato di fronte uno dei giovani, con la pistola puntata, che gli chiedeva aiuto per scappare. La nostra casa aveva un’uscita anche sul retro e mio papà da lì lo aveva fatto fuggire, suggerendogli di nascondersi in chiesa. Nei pochi metri tra l’uscita dalla nostra abitazione e l’ingresso della chiesa era intervenuto un altro mandellese, che di fatto aveva consegnato il partigiano, che era comunque sopravvissuto, finendo dopo varie peripezie a Coltano, a Pisa, dove gli alleati, nei mesi successivi alla fine della guerra, avevano organizzato un campo per prigionieri della Repubblica di Salò.

Diversi anni dopo la fine della guerra, mentre chiacchierava com’era solito fare in piazza, mio padre fu avvicinato da una persona che lui riteneva sconosciuta. Immaginatevi la sorpresa quando si sentì dire: “Tu sei quello che mi ha salvato la vita il 30 dicembre del ‘43”. Pochi attimi erano bastati a quel giovane per imprimersi nella memoria il suo volto.

Non era, “èl Geni”, persona che facesse proclami, ma non aveva dubbi nel riconoscere da quale parte stesse il bene e nel decidere come comportarsi di conseguenza. Siamo a questo punto ai primi anni ’50 e lui viene chiamato a casa di un parente perché la moglie, durante il parto, ha una grave emorragia, ma l’ambulanza, per una nevicata, ha problemi a raggiungere in tempo adeguato Mandello. Lui e un altro avisino si ritrovano a casa di questa signora, dove il dottor Stea, nell’attesa, preleva loro il sangue da iniettare direttamente nella donna, tamponando come poteva la situazione. Tante volte l’ho sentito dire, ancora commuovendosi a distanza di anni: “Quando quella donna ha aperto gli occhi e mi ha detto grazie, io ero l’uomo più felice della Terra”.

Potrei raccontare altri casi di cui sono stata diretta testimone, ma mi sembra particolarmente prezioso quello che mi ha ripetuto molte volte, con tanta stima per nostro padre, una mia sorella. Il nostro nonno materno, vedovo, si era trovato improvvisamente a non aver più nessuno che potesse accudirlo. Si era così presentato dai miei, chiedendo di essere accolto e dichiarando che in cambio avrebbe lasciato tutta la sua eredità a mia madre. La risposta del nostro papà fu, con quel “voi” a cui ai tempi ci si rivolgeva anche a genitori o suoceri: “Adesso sedetevi e mangiate. Dell’eredità non se ne parla”. In un’altra occasione decise di aiutare un parente acquisito che aveva accumulato diversi debiti e i cui creditori a quel punto non gli avrebbero più fornito quanto gli era necessario per proseguire nell’attività. Lui chiamò i vari creditori, da cui - anticipando di tasca propria, senza la sicurezza di riaverlo indietro, il 50 % di quanto dovuto loro - ottenne la dichiarazione firmata che il debito era stato estinto. Per dovere di cronaca, quel parente gli restituì tutto, anche se quando ormai l’inflazione ne aveva eroso il valore. Ma lui non ebbe mai a pentirsi di quel gesto, ripagato, come sempre fu, dall’aver toccato con mano che quella famiglia aveva potuto risolvere un serio problema economico.

Adriana Lafranconi

Nessun commento:

Posta un commento