Maria Stucchi, al centro, nella sua terra di missione a Itaparica. |
Un altro ritratto mandellese. Questa volta è quello di Maria Stucchi, a pieno titolo tra i personaggi del presepe allestito alla Canottieri Moto Guzzi capaci di rappresentare la “santità quotidiana”.
Che donna è stata Maria Stucchi? Come per ogni persona, le risposte potrebbero essere tante, perciò il mio racconto non sarà certo esaustivo. Spero soltanto di riuscire a non ridurne lo spessore. Pensando a quanto di lei raccontava mio padre, che di suo fratello “Mondo” era stato amico fraterno, posso cominciare col dire che sia stata persona determinata. Mi pare l’aggettivo adatto per parlare di chi, come lei, dopo diversi anni di lavoro in filanda - a cui, come la sorella Piera, era stata avviata piccolissima, tanto da avere necessità di salire in piedi su uno sgabello per arrivare al filatoio - decide di intraprendere gli studi da sola, privatamente. Si diploma maestra e così si dedica all’insegnamento, fino alla pensione.
Un’idea, quella della determinazione della “maestra Stucchi”, che ribadiva anche una sua nipote, con la quale ho vissuto costruttive esperienze alla scuola “Pertini”: Luisa Stucchi. Più volte l’ho sentita dire: “Se sono diventata insegnante, è perché mia zia Maria, già quando ero piccola, diceva con convinzione: Maria Luisa, devi diventare maestra. È deciso. E così è stato”.
Un’alunna della maestra Maria Stucchi ha ancora ben presente che, benché la classe fosse numerosa, lei riusciva a seguire tutti i suoi allievi, per l’autorevolezza che la caratterizzava. Aggiunge, questa mandellese, di aver già saputo allora che la loro maestra spesso passava la notte ad assistere ammalati, per presentarsi poi a scuola al mattino, puntuale, precisa, con anche la collana al collo, anche se, ovviamente, molto stanca, tanto da dover combattere con il sonno a cui di tanto in tanto, comprensibilmente, rischiava di soccombere.
Al termine delle lezioni gli scolari che abitavano vicino alla maestra, prima di tornare a casa, con lei andavano in chiesa per un momento di preghiera, o per impegnarsi in qualche fioretto. Rispetto alla determinazione di Maria Stucchi, posso anche aggiungere un ricordo strettamente personale, legato al “primo venerdì del mese”, che anche in casa mia veniva rispettato: al mattino si andava alla messa, per fare la comunione. Quella volta - era un venerdì di vacanza - ero stata svegliata dalla mamma per andare in chiesa, ma quando lei era rientrata da qualche commissione mi aveva trovata ancora a letto, riaddormentata. Così, con la sua sgridata nelle orecchie, ero dovuta correre in chiesa. Ma la messa era già finita.
Mi infilai in un banco, pensando che non fosse poi così male se non ero arrivata in tempo, anche perché a mia volta mi ero arrabbiata con la mamma. E a catechismo avevamo letto questo passo dell’evangelista Matteo: Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello, poi vieni a offrire la tua offerta.
In un banco a fianco c’era la maestra Stucchi, che mi si avvicinò e mi chiese se dovevo ancora fare la comunione. La mia risposta fu un “nì”, perché non me la sentivo di raccontarle cos’era successo a casa, come stavo dentro di me, e cercai una scusante nel fatto che ormai il prete non ci fosse più. Ma lei non mi lasciò neppure finire e mi disse: “Non è cosa da poco perdere una comunione. Adesso vado io a chiedere a don Ludovico di tornare qui per te”. Sentivo che lei in quel momento si stava prendendo cura di me e non volevo deluderla; contemporaneamente non volevo dirle tutta la verità. Perciò tentai di glissare. Inutilmente: lei era ormai sulla porta della chiesa, per chiamarlo. Che fare? Rivolsi un pensiero di scusa per la rispostaccia che poco prima avevo dato alla mamma e, pur con qualche incertezza, mi preparai a salire all’altare.
Con il termine “rigorosa” posso sintetizzare la presentazione che di Maria Stucchi fa la nipote Irene Gatti, che mi scrive: “Nell’educazione, per lei era tutto importante: il comportamento, lo studio, l’impegno, il rispetto verso gli altri. A scuola era abbastanza severa, ma non come altre sue colleghe. Amava i suoi scolari, che voleva precisi, ordinati e che affidava spesso al Signore. Altrettanto ha tanto amato i suoi nipoti, tra i quali il preferito era mio figlio Mauro, che lei chiamava affettuosamente Maurino. E guai se qualcuno si permetteva di dire parolacce, fosse anche un quasi innocente “stupido”. Guai se non si era curati nel vestito: non accettava neppure un colletto slacciato. Lei stessa era sempre impeccabile nell’abito: una camicetta non di lusso, ma sempre in ordine, ben chiusa, e il golfino, mai la manica corta... Certo a quei tempi questa era anche una moda, ma la modestia per lei era una fissa”.
“Mi ricordo che per la colonia, dove era responsabile educatrice - aggiunge - aveva fatto preparare dei prendisole che di sole te ne facevano prendere proprio poco, tanto coprivano il corpo di chi li indossava. Anche col passare degli anni, e il cambio dei costumi, lei non mutò atteggiamento. Uno dei motivi che la spinse ad andare in missione fu quello di voler insegnare ai piccoli di quella terra a non girare nudi, per rispetto di sé oltre che per motivi igienici. Mia mamma Piera bonariamente cercava di farle cambiare idea, sottolineando che anche per il caldo là i bambini erano soliti stare come la natura li aveva fatti, ma non riuscì nel suo intento. Così la maestra Stucchi se ne andò in terra di missione, per tornare a Mandello quando ormai era molto anziana”.
È un’altra nipote, suor Letizia Gatti, a parlare dell’impegno della maestra Stucchi su un altro fronte, quello dell’Azione cattolica. Spesso, infatti, lei raggiungeva a Milano la beata Armida Barelli, che non solo insieme a monsignor Luigi Olgiati e al venerabile Ludovico Necchi aveva collaborato con padre Agostino Gemelli per la creazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ma aveva anche dato vita ai circoli della gioventù femminile dell’Azione cattolica, per poi divenire vicepresidente generale dell’Azione cattolica italiana. Dai colloqui con Armida Barelli, la maestra Stucchi riportava a Mandello idee e carica per potenziare la presenza dell’Azione cattolica in paese.
Maria Stucchi il giorno del suo novantesimo compleanno. |
Della maestra Maria come testimone di fede ho raccolto informazioni puntuali dal vescovo emerito di Cremona Dante Lafranconi, che la ricorda, quando lui era molto piccolo, quotidianamente presente alla messa, poi animatrice delle adunanze dei fanciulli di Azione cattolica, esperienza che incise certamente sulla sua vocazione sacerdotale. Ma è su Maria Stucchi missionaria che egli in particolare si sofferma. Da lui sappiamo che fu laica consacrata fra le Missionarie della regalità di Cristo e che come membro secolare di questo istituto andò in missione in Brasile, a Salvador. Qui Maria Stucchi scelse di passare un anno nella favela degli Alagados, dove allora le abitazioni erano in maggioranza su palafitte, dalle condizioni igieniche precarie, e dove erano diffuse malattie anche molto gravi. Con queste persone Maria Stucchi condivideva la propria vita.
Il vescovo le chiese poi di trasferirsi sull’isola di Itaparica, di fronte a Salvador, dove si spese a favore dell’educazione delle donne, che aiutava anche nelle pulizie. Addirittura giunse a pagare di tasca propria altro personale per garantire condizioni igieniche migliori in questa miserrima realtà. In qualità di responsabile nazionale delle Missionarie della regalità di Cristo, il vescovo Lafranconi andò a predicare gli esercizi spirituali alle missionarie in Brasile, potendo così condividere intere giornate con Maria Stucchi, della quale poté toccare con mano sia l’apprezzamento da parte delle persone che lei aiutava in quella terra sia la grande fede, che manifestava, ancor più che attraverso la preghiera, con la carità.
Su questo aspetto della generosità della maestra Maria Stucchi posso raccontare un episodio che ho da sempre vivo nella memoria. Nella casa di famiglia di via Portichetto, tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, dopo la scuola riuniva giovani e meno giovani che non sapevano leggere e scrivere, per insegnare loro queste abilità. Un giorno si venne a sapere che le era stata rubata una cifra non indifferente di denaro. A Mandello basso la gente aveva in fretta tirato le conclusioni: erano certamente stati quelli a cui lei dedicava il proprio tempo perché potessero imparare e che conoscevano bene la sua casa. Ma si venne anche a sapere qual era stato il suo commento: “Beh, senza dubbio ne avevano bisogno più di me. Mi hanno quasi fatto un piacere… Avrei dovuto andare in banca a depositare quel denaro e mi hanno risparmiato questo compito”. E non fece, se ricordo bene, denuncia alcuna.
Adriana Lafranconi
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