E’ uno dei personaggi del presepe “de Mandèl bass”. “Alla competenza propria della professione - si legge sul pannello posizionato all'inizio del “percorso” che conduce al presepe, allestito alla Canottieri Moto Guzzi di Mandello Lario - univa una profonda umanità, fondamentale per i suoi malati”. Il riferimento è al dottor Franco Stea e a delinearne il ritratto è Adriana Lafranconi.
In questi giorni mi è capitato più volte di scambiare con mandellesi più o meno miei coetanei ricordi e opinioni sui personaggi raffigurati. Il dottor Franco Stea mi pare essere quello che sta in cima alla hit-parade delle espressioni di stima, di ricordo affettuoso che tutti loro si sono meritati.
Per tante famiglie di Mandello Lario “èl Stea” è stato presenza competente per ogni problema di salute, uomo al quale confidare pene e soddisfazioni, oserei addirittura dire figura amica, oltre il ruolo che per professione esercitava. E al riguardo in questi giorni ho raccolto diverse testimonianze.
C’è chi ricorda che quando, da ragazzina, aveva avuto la parotite - “gli orecchioni”, come si diceva allora - il dottor Stea per diversi giorni era andato a visitarla a casa, raggiungendo a piedi, perché non c’era altra soluzione, la sua casa in una frazione, sotto il sole cocente di luglio. Aggiunge questa testimone: “Pensa che, siccome continuavo ad avere la febbre molto alta, chiedeva a mia mamma di tenermi il ghiaccio sulle ovaie perché, sottolineava, “la parotite può causare infertilità nei maschi, ma meglio cautelarsi anche rispetto alle femmine. Magari più avanti si scopre che può creare problemi anche a loro”. Accanto alla disponibilità nei confronti dei pazienti, questo particolare mi fa pensare che lui fosse anche molto attento alla ricerca scientifica”.
Tra i ricordi di un’altra persona c’è quello relativo a un problema di salute molto serio. In sintesi, questo il suo racconto: “Avevo un’infezione molto grave e per lo stesso problema in quel periodo era morto un ragazzino a Mandello. Se sono ancora qui, è perché il dottor Stea aveva capito subito quale fosse l’origine dell’infezione e mi curò a casa con tanta perizia. Avevo pochi anni, non ho ricordi molto dettagliati, ma la mia mamma mi ha raccontato tante volte che il dottor Stea addirittura si fermò a casa nostra una notte intera - l’antivigilia di Natale, per essere precisi - quando la situazione si era fatta particolarmente grave. In quelle ore non solo mi curò, ma fece ben altro. Poiché gli serviva con urgenza un farmaco, prestò la sua moto, una Guzzi, “èl 65”, a mio padre, perché andasse, nel più breve tempo possibile, a procurarselo alla farmacia Sodano”.
“Nel frattempo - continua il racconto - aiutò la mamma a spostare il tavolo del presepe e a trascinarvi al suo posto dalla camera il lettino dove io dormivo, perché la cucina era l’unico locale che potesse garantire il caldo di cui in quel momento avevo proprio bisogno. Nel frattempo, siccome mio padre tardava a tornare con il farmaco, non nascondeva una sua doppia preoccupazione: contava i minuti perché sapeva che il ritardo nella sua somministrazione avrebbe potuto peggiorare la situazione e, d’altro canto, temeva che il papà, che non aveva mai avuto una moto, potesse essere caduto per strada. Qualche giorno dopo, quando il peggio era passato, lui confidò ai miei genitori: “Sapete perché mi sono fermato tutta la notte? Perché ero convinto che ci avrebbe salutati per sempre”. Aveva aspettato a dirlo quando in quella famiglia stava tornando il sereno”.
E si moltiplicano i ricordi di chi ha potuto beneficiare delle cure amorevoli di questo medico. Una signora racconta di essere finita, quando aveva 8/9 anni, contro una moto che stava in quel momento sopraggiungendo lungo il sentiero che lei stava percorrendo, procurandosi una ferita non di poco conto a una gamba, tanto da dover essere portata in fretta nell’ambulatorio del dottor Stea. Mentre questi le suturava la lacerazione con le graffette metalliche lei, in grande sofferenza, con la gamba sana aveva preso a dargli dei calci, fra il disagio e i rimproveri della mamma. Ma lui aveva commentato: “Fai bene a picchiarmi, anch’io al tuo posto darei calci a questo dottore che fa tanto male”. Parole rassicuranti, queste, per la bambina di allora, che a distanza di tanti decenni gli rivolge ancora pensieri di gratitudine.
Secondo un’altra mandellese, il dottor Stea non disdegnava di raccontare, rigorosamente in forma anonima, aneddoti relativi alla sua professione. Quello che scelgo di raccontarvi mi sembra particolarmente interessante. Era stato informato, questo medico, che a Somana un suo paziente non stava bene e chiedeva di essere visitato, a domicilio, come allora succedeva. In sella al suo “65 Guzzi” era salito verso la frazione, ma in uno slargo aveva avuto l’impressione di scorgere l’ammalato intento a lavorare in un campo, vicino a casa sua.
Qualche minuto gli era stato necessario per raggiungere quell’abitazione, entrare e chiedere alla moglie se il paziente fosse in casa. La moglie, con aria sicura, gli aveva risposto che certamente c’era, a letto, e lo aveva accompagnato in camera, dove l’uomo stava sotto le coperte. Ma l’immagine di qualche minuto prima del contadino, intento a sistemare il fieno, per il dottore era stata più che un’impressione, per cui si era avvicinato al letto, buttato indietro le coperte e scoperto sì che il suo paziente era coricato con il pigiama, come si conviene a un ammalato, ma con degli scarponi ben stretti ai piedi. Se il medico dalla moto aveva scorto il contadino, anche questi aveva riconosciuto il medico sulla moto e si era fiondato a casa, senza però avere il tempo di slacciare le stringhe degli scarponi.
Non so se il dottor Stea abbia mai raccontato quest’altro episodio. Lo faccio io al suo posto. Una ragazza, volendo prendere la patente, aveva prenotato, secondo il protocollo, la visita da lui, che era anche il suo medico di famiglia. Pur avendo una leggera miopia, non gradiva questa fanciulla - che per età “da patente” avrebbe dovuto avere più senno - avere la foto con gli occhiali sulla patente e, poiché non li portava sempre, con un’amica aveva escogitato una soluzione. In quel periodo stava abituando gli occhi alle lenti a contatto, che ancora però non aveva acquistato, così le aveva chieste in prestito all’amica, che invece le aveva da qualche mese. Con quelle, pensava, sarebbe riuscita a leggere le lettere dell’alfabeto e non avrebbe avuto come esito della visita le parole “Obbligo di occhiali alla guida”.
Il dottor Stea nella visita fece i controlli dei riflessi, dell’udito, poi con sicurezza disse: “Non c’è bisogno di vedere come siamo messi a vista. Me lo ricordo bene che gli occhiali tu li porti, anche se non sempre”. Quella ragazza si chiede ancora adesso se il medico avesse agito così soltanto in base alla profonda conoscenza che aveva dei suoi pazienti o se, invece, accorgendosi dell’imbroglio messo in atto nei suoi confronti, avesse preferito gestire con eleganza la situazione. Sono certa che il dubbio ancora si affacci alla mente della ragazza di quel tempo, perché - lo confesso con vergogna - quella sono io.
Tanto altro si potrebbe scrivere del dottor Franco Stea, ma mi piace concludere questa storia con le parole che il prevosto don Erio Bertoletti gli dedicò al funerale: “Siamo in tanti a salutare oggi questo nostro fratello. Non guardiamo al fatto se sia stato o meno praticante. Ricordiamo tutti che è stato l’uomo buono che piace al Signore”. Il suo posto nel presepe “de Mandèl bass” il dottor Stea se lo è più che meritato.
Adriana Lafranconi
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