E’ una storia pubblicata un anno fa sulla rivista online Sezione Aurea di “Argentodorato editore”. A scriverla è stata la mandellese Adriana Lafranconi, che alla vigilia di questo Natale 2024 la ripropone ai lettori di questo blog:
“Nonna, posso aiutarti a fare il presepe?”, mi ha chiesto qualche anno fa mio nipote Gioele, non più bambino, non ancora ragazzo. Una richiesta da non farsi scappare, la sua, perché preziosa. Non so se avrò in sorte di sentirmela ripetere in futuro.
Volentieri, Gio’! Anche per me, quando ero piccola, fare il presepe è sempre stato bello. Vieni. Prima, però, ti voglio raccontare di me bambina davanti alla capanna. Mi piace regalarti questo ricordo: so che lo conserverai per il tuo futuro. Come stai già facendo con la casetta per il presepe che il nonno aveva costruito tanti anni fa e che ha dato a te. Dunque…
“Era mio papà, il tuo bisnonno Geni, a dare inizio al rito dei preparativi per la festa del Natale. Un mattino raggiungeva con la barca la sponda opposta del lago e da lì saliva per i boschi dove sapeva di poter trovare, oltre a una cima d’abete, del muschio soffice, di un verde brillante. Ne raccoglieva in abbondanza, perché ce ne fosse a sufficienza per ricoprire il tavolo destinato al presepe e con cura lo riponeva in una cassetta di legno. Io lo aspettavo ogni anno con la stessa trepidazione, pronta a prendere con delicatezza in mano i vari pezzi di muschio. La mia soddisfazione era in proporzione alla loro ampiezza: più grandi erano, più ero contenta.
Ricordo in particolare l’anno in cui su un pezzo di muschio trovai una piantina di felce. Una novità, che mai più si ripresentò gli anni successivi. Due, tre foglie al massimo, di un verde tenero, piccole, ma che a me parevano rappresentare un bosco nel presepe. Studiai a lungo dove collocarlo, perché si facesse apprezzare. Alla fine decisi: a lato della capanna, ai piedi delle montagne costruite con la legna.
Era invece compito di mia mamma, la tua bisnonna Teresina, preparare le statuine. Ogni anno le stesse mosse. Da un armadio prendeva una scatola di cartone, cilindrica, che in origine aveva contenuto un panettone che un amico ci aveva spedito da Milano, in segno di augurio. La maneggiava con cura, perché prezioso era il suo contenuto. Guai se le fosse sfuggita di mano e qualche statuina fosse caduta a terra. Con gesto solenne sollevava il coperchio ed ecco apparire il primo strato di statuine, adagiate sulla paglia, sempre la stessa negli anni, che le proteggeva. In posizione privilegiata stava Gesù bambino, che mia mamma prendeva in mano per farlo baciare a tutti noi. Un minuscolo bambinello, con un camicino leggero sulla cartapesta del corpo, i riccioli dorati, le braccia aperte ad accogliere il mondo. E poi, via via, dalla scatola lei toglieva le altre statuine, in ordine casuale.
Era una sorpresa, per me, vedere cosa aveva in mano di volta in volta. Ecco la Madonna, ecco lo zampognaro, la guardiana di oche, l’anziana che fila, san Giuseppe, il bue, il ragazzotto con la mano sulla fronte a guardare lontano, il pastore e le sue pecorelle, con il vello così morbido da parere vero, i Magi, tra i quali si mischiavano l’asinello, il pescatore con un pesciolino argenteo attaccato alla lenza, il fornaio, la donna col secchio dei panni lavati, quella con un camicino, di finissimo lino, per il bambinello...
Un presepe molto popolato e molto popolare. I personaggi erano gli stessi, tutti gli anni; ritrovarli era gioia grande: facevano un po’ parte della famiglia. Ma avevano una storia, quelle statuine, che ogni anno mia mamma ripeteva, quasi senza cambiare una parola.
Maria, Giuseppe e Gesù bambino, il bue e l’asinello, con la capanna, sono state le prime che ho acquistato, l’anno in cui era nata Mariuccia. Le altre, poco a poco, sempre nel negozio della Caterina Pomi, che ne aveva una bella scelta, di cartapesta finissima. L’uomo con l’organetto è stato un regalo alla zia Claudia, un anno. Guarda che particolari, guarda la barba… e perfino i baffi ci sono!
Tutti questi personaggi avevano fatto la loro comparsa in casa prima di me. Anzi, per essere precisi, i primi risalivano al 1935, l’anno di nascita della zia Tata. Forse anche per questo mi parevano così preziosi. Li conoscevo uno ad uno, perché ogni anno stavo a lungo ad ammirarli, ma ogni Natale tornavo a scrutarne i dettagli, come se li vedessi per la prima volta.
Quando la scatola era vuota e le statuine in bella fila sul tavolo della cucina, si apriva sempre la discussione di dove collocarle sul muschio che nel frattempo era stato ben sistemato dal papà. Io, che ero la più piccola, sapevo che la scelta sarebbe stata della mamma e delle mie sorelle maggiori. La mia crescita si è accompagnata anche alla possibilità di vedere accolti via via, sempre più, i miei suggerimenti. E mi sentii grande l’anno in cui fu affidata a me la collocazione di tutti i personaggi nel presepe.
Fu mia, non ricordo a quale età, la scelta di aggiungere al ruscello di carta stagnola uno specchietto per fare il laghetto, su cui appoggiai due minuscole ochette, la sorpresa che avevo trovato nell’uovo di Pasqua e che per mesi erano rimaste, dimenticate, in fondo a un cassetto. Poco intonate alle raffinate statuine di cartapesta, ma che in famiglia furono accettate.
L’albero poco ecologicamente tagliato dal mio papà faceva poi la sua comparsa accanto al presepe. Pagano per origine, non si meritava da parte nostra la stessa importanza del presepe, anche se veniva costruito con cura. Le palline, tutte di fragile vetro colorato, aspettavano ogni anno il Natale accuratamente sistemate in una cassetta che aveva contenuto bottiglie di vino. Appenderle ai rami da un canto mi attirava, ma dall’altro mi intimoriva perché, se ne avessi rotto una, sarebbe stato un problema. Devo aver pensato per tanto tempo: “Meglio stare alla larga da questo compito…”. Mi limitavo perciò ad apprezzarne forme, colori, dimensioni. Le mie preferite erano quelle con una rientranza a forma di piramide, perché abbinavano il colore della superficie - rosso, blu, verde - a quello dorato o argenteo di questa parte.
Un anno l’albero si arricchì di un elegante puntale, sempre di vetro, con ben tre sfere decrescenti per diametro, incolonnate una sopra l’altra. Mi sono chiesta spesso quali abili mani fossero state in grado di fabbricarlo. Solo più tardi, visitando una fornace per il vetro a Murano, ho capito che, più che di mani, erano frutto dell’abilità del mastro vetraio di modellare con il soffio la pasta di vetro incandescente. Grande, in ogni caso, la magìa che vi respiravo.
Accanto al profumo umido del muschio, a quello della resina dell’abete, non mancavano altre essenze in casa mia, nel periodo natalizio. Su tutte, quella del calicanto che tutti gli anni mia mamma chiedeva in dono a un suo cugino. Incapaci di competere per colore e dimensioni con le più diffuse rose, i fiori di calicanto battono molti rivali per quella fragranza che tanto per me fa Natale. Più discreta, la presenza della buccia di arance e mandarini, che a conclusione del pranzo nelle settimane di dicembre, fino all’Epifania, finivano sulla stufa, per sprigionare con il calore la loro fragranza. E proprio il giorno di Natale, seppur fugace, faceva la sua comparsa l’aroma dell’alloro, quando la mia mamma, subito prima del pranzo, ne buttava qualche ramo nel camino acceso e, mentre esso si infiammava scoppiettando, ci faceva recitare un l’eterno riposo per tutti i nostri familiari che avevano lasciato questo mondo. Per me, in quell’occasione, quella non era la solita preghiera dei defunti, ma un augurio loro riservato nel giorno di Natale.
“Nonna, ma le statuine che adesso tu usi per il presepe sono ancora quelle di casa tua?”. No, quelle adesso le hanno in parte la zia Claudia e in parte - la natività nella capanna, il pastore e qualche pecora - tuo cugino Paolo, il figlio della zia Tata, perché, come ti ho raccontato, le prime statuine hanno la sua stessa età. Queste del nostro presepe le abbiamo comprate io e il nonno, tutte insieme, in Provenza, durante il nostro viaggio di nozze. Sono di terracotta, come vedi, non di cartapesta modellata, ma ugualmente belle. “Nonna, posso metterle io sopra il muschio?”. Certo. Anche tu ormai sei grande abbastanza.
Adriana Lafranconi
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