L’ex docente mandellese Adriana Lafranconi: “L’espressività del disturbo è molto eterogenea e spesso i piani didattici individualizzati si riducono all’elenco di strumenti compensativi e a misure dispensative piuttosto che indicare adeguate alternative metodologico-didattiche”
Pochi giorni fa Italiaoggi.it, con un intervento del professor Pierluigi Zoccolotti, ordinario di psicologia generale all’Università La Sapienza di Roma, ha affrontato il tema della notevole crescita nelle scuole italiane di allievi cui sono certificati disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), in particolare dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia.
I dati segnalano un incremento del 500% in 11 anni, vale a dire da quando è stata emanata la legge 170/2010 (“Nuove norme in materia di disturbi specifici dell'apprendimento in ambito scolastico”) fino all’anno scolastico 2020-2021.
Notevole la differenza tra le percentuali di diagnosticati per DSA sulla popolazione scolastica nelle varie regioni: dal massimo dell’8,4% della Val d’Aosta al minimo dell’1,6% della Calabria, per una media italiana del 5,4%.
La tesi sostenuta è che questa esplosione di diagnosticati sia frutto di maggior consapevolezza, anche derivante dalla normativa relativa a questa problematica. Ma percentuali così elevate suggeriscono una riflessione in merito. Ne parliamo con la mandellese Adriana Lafranconi, ex docente ed ex dirigente scolastico.
Recentemente sono stati resi noti dati sull’incremento dei disturbi specifici dell'apprendimento che, secondo esperti del settore, deriverebbe da una maggiore consapevolezza in merito. Lei concorda con questa tesi?
“Certamente il fatto che scuola e famiglia abbiano in questi anni avuto accesso a ricerche, informazioni, possibilità di interventi in merito, di prevenzione, ha generato una maggior sensibilità in proposito e di conseguenza è aumentata la richiesta della valutazione del neuropsichiatra infantile e dello psicologo per l’eventuale certificazione. Prima si poteva intuire che ci fossero problemi, ma non si riusciva a dare agli stessi un nome preciso, a conoscerne cause e conseguenze, non si sapeva che ci si poteva avvalere di adeguate strategie. Ma ripensando ai miei oltre 40 anni di vita nella scuola, anche alla luce delle mie attuali conoscenze credo di poter dire di avere incontrato molti bambini con difficoltà nella lettura, nella scrittura o nel calcolo, ma pochi che manifestassero un vero e proprio disturbo. Li ho ancora presenti, per la stranezza degli errori che commettevano, per la scarsa efficacia degli interventi che attuavo. Molti miei ex colleghi hanno fatto analoghe rilevazioni. Anche la normativa sottolinea la differenza tra difficoltà e disturbo, assolutamente fra loro non assimilabili. Un’esplosione di diagnosticati per DSA come quella riportata richiede a mio parere un’analisi più articolata. Già nell’anno accademico 2012-13, insegnando nel Master in “Didattica e psicopedagogia per i disturbi specifici dell'apprendimento” (Università di Bergamo), segnalavo il dato anomalo di una crescita dei certificati per dislessia e disortografia più elevata in Italia, rispetto a Paesi anglofoni, la cui lingua può creare molti più problemi in merito della nostra. Una discrepanza che nel tempo è aumentata notevolmente”.
Sta dicendo che, oltre alla consapevolezza di scuola e famiglia, altri fattori possono incidere su questa realtà?
“Un competente uomo di scuola qual è Italo Bassotto, maestro, direttore didattico, ispettore e docente universitario, qualche giorno fa ha scritto: “Stanno trasformando (lentamente, ma inesorabilmente) i vizi in malattie: la cupidigia in ludopatia, la superbia in delirio di onnipotenza, l’ignavia in hikikomori, la gola in patologie alimentari, la lussuria in devianza sessuale”. Perché? Ma è semplice: la malattia arricchisce i medici (neuropsichiatri, dietisti, psicoterapeuti, clinici). Il vizio, al contrario, chiama in causa la coscienza e il giudizio morale, quindi l’educazione, che non costa nulla, ma vale immensamente più della cura”. Una denuncia forte, questa, che molti contesteranno ma che a mio parere ha il pregio di portare in primo piano il valore dell’educazione, contro la medicalizzazione, rispetto ai vizi richiamati. Una riflessione analoga, con i dovuti distinguo, può essere fatta per i disturbi specifici dell'apprendimento, dove pure è presente il rischio della medicalizzazione. Se un allievo o un’allieva incontrano solo difficoltà, non hanno diritto a strumenti compensativi (sintesi vocale, programmi di videoscrittura, calcolatrice) o a misure dispensative (avere a disposizione più tempo per le verifiche, evitare la lettura ad alta voce) ma certo per superarle devono impegnarsi maggiormente”.
Educazione, dunque, della costanza, dell’attenzione, della precisione?
“Certamente sì. E oso dire che insieme allo studente o alla studentessa anche l’insegnante è chiamato a impegnarsi di più, per trovare attività didattiche adeguate per chi ha questi bisogni. Quando invece c’è una diagnosi si apre la strada della terapia, della riabilitazione in ambienti extrascolastici - che hanno un costo, anche se forniti dal Servizio sanitario nazionale - quella del percorso scolastico anche molto differenziato, descritto nel piano didattico individualizzato steso per l’allievo/l’allieva in questione. Avendo potuto analizzare molti piani didattici individualizzati, posso affermare che si somigliano tutti, mentre l’espressività del disturbo è molto eterogenea e spesso tali piani, complice la normativa, si riducono all’elenco di strumenti compensativi e a misure dispensative, piuttosto che indicare alternative metodologico-didattiche pensate dai docenti per il caso specifico”.
Per essere più esplicita, può fare qualche esempio?
“Ho trovato solo in qualche caso la scelta di affiancare al tradizionale insegnamento della matematica quello della matematica vedica (derivante da antichi insegnamenti indiani) che può facilitare, con percorsi non faticosi, il calcolo mentale, la memoria, la fiducia in se stessi. Costante, invece, il riferimento all’impiego della calcolatrice, alla possibilità di consultare le formule per il calcolo di aree e perimetri. Soluzioni legittime per la normativa, meno a mio parere per la pedagogia e la didattica, che chiedono di valorizzare le risorse a disposizione della persona piuttosto che aggirare i suoi limiti: semplice a dirsi, certamente per gli insegnanti costoso a farsi”.
Oltre che legittime normativamente, queste sono dunque soluzioni semplicistiche, che corrono il rischio di deresponsabilizzare allievi e docenti?
“E’ esattamente così. Penalizzanti, addirittura, se si pensa che esonerare l’allievo dal corsivo a favore dello stampato, finanche dalla scrittura manuale a favore di quella digitale, significa sottrargli l’incidenza positiva che la pratica del corsivo e della scrittura ha su specifici circuiti cerebrali, sull’autocontrollo, sulla memoria, sull’immaginazione, sull’ortografia. Anche per certe famiglie può essere più semplice accettare la diagnosi di disturbo con quanto ne consegue piuttosto che sostenere il proprio figlio, in difficoltà, in un percorso più impegnativo del consueto. D’altra parte se la scuola, in assenza di un atto certificativo, non personalizza adeguatamente la propria azione educativa laddove si riscontrano limiti, è pur comprensibile che i genitori ricerchino altre forme di tutela per i propri figli, attivando percorsi di valutazione del possibile disturbo specifico di apprendimento”.
Ma a questo punto interviene la responsabilità di chi deve certificare la presenza o meno del disturbo…
“Nel 2022, a distanza di 10 anni dal precedente documento, l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato nuove “Linee guida sulla gestione dei disturbi specifici dell'apprendimento”. In quel testo si legge che “…non abbiamo ad oggi marker biologici affidabili per la loro identificazione e conseguentemente per la diagnosi” e che “anche gli sforzi compiuti negli ultimi decenni di definire procedure e protocolli diagnostici e riabilitativi scientificamente validati non hanno portato a risultati conclusivi”. Si segnala anche la necessità di procedere “alla risoluzione degli aspetti rimasti controversi nelle pratiche diagnostiche attuali”, visto che esistono differenze consistenti fra i diversi sistemi classificazione diagnostica. Questo per dire che la diagnosi di DSA a tutt’oggi è una realtà ancora molto fluida. Impegnativo e in una certa misura discrezionale è dunque il compito del professionista sanitario per queste certificazioni”.
In tale contesto le équipe delle strutture pubbliche sono adeguatamente preparate?
“Le équipe delle strutture pubbliche, così come di quelle private accreditate, si avvalgono di colloqui con il soggetto stesso, con i genitori, di test ad hoc, di osservazioni dell’allievo impegnato nelle attività di lettoscrittura e di calcolo. Ma è pur vero che l’osservazione risente del momento in cui si esamina lo studente, perché questi disturbi non sono statici, ma si modificano nel corso del neurosviluppo per effetto dell’interazione tra i vari processi ad essi sottesi. Inoltre poiché imparare a leggere, scrivere e far di conto sono attività culturalmente mediate, forte è anche l’incidenza della qualità dell’azione didattica, al punto che per diagnosticare i DSA occorre essere certi di essere in presenza di adeguate modalità di insegnamento. Ma chi può eventualmente escluderlo? Non certo il professionista sanitario. Forse anche tutti i fattori qui ricordati possono avere come conseguenza l’incremento del numero di allievi cui sono riconosciuti disturbi specifici dell’apprendimento. Nell’incertezza, si certifica. Può essere”.
Molti centri accreditati per la diagnosi di DSA offrono anche servizi a pagamento per allievi con questo tipo di problema. Da qualche parte si avanza l’ipotesi di un circolo vizioso fra certificazione facile e incremento di questi servizi organizzati dagli stessi Centri. Cosa ne pensa?
“Su un tema così delicato occorre avere dati precisi per esprimere un’opinione. Ma è anche vero che questo può essere frutto di un approccio strettamente specialistico al problema. Tanti anni fa, di fronte a un problema di salute di uno dei nostri figli, il pediatra ci disse: “Potremmo sentire un chirurgo, ma che cosa volete che ci dica? Un chirurgo quasi certamente proporrà un intervento. Proviamo prima rispettando queste avvertenze…”. E il problema, per la verità, si risolse con modalità non specialistiche. Analogamente, fatta la diagnosi di DSA, in una prospettiva medicalizzante, si provvede alla terapia. Il personale in campo segue il proprio punto di vista, che non è quello pedagogico-didattico ma appunto quello medico. E con i tempi spesso biblici nel Servizio sanitario nazionale il privato non può che prendere piede. Certo è che all’esplosione del numero di allievi con disturbi specifici dell'apprendimento se n’è accompagnata un’altra: quella di corsi (alcuni molto accreditati, altri meno), di manuali per l’insegnante, di schede per gli allievi, di prodotti digitali che per gli editori rappresentano un mercato fiorente, anche perché la scuola in molti casi sceglie la strada più semplice dell’affidarsi al prêt-à-porter. Abbiamo tutti imparato a scrivere con un normalissimo lapis, poi ha fatto la comparsa la matita ergonomica, con sagomatura antiscivolo, e siccome questa ancora non bastava sono nati i gommini da infilare sulla matita, per un’impugnatura più salda, e di seguito gli “artigli”, aggeggi che costringono le dita del bambino nella corretta posizione, senza che egli ne abbia consapevolezza. Condizionamento, dunque, dall’esterno, addestramento, non educazione, non sviluppo delle risorse della persona. Il Movimento “Senza zaino” prevede la vendita e l’impiego di “quadernotti”: quaderni un po’ più grandi dei quaderni normali e un po’ più piccoli dei quadernoni, con questa motivazione: “Il quaderno formato A5 che noi proponiamo si adatta molto meglio allo sviluppo prossimale del bambino che non è costretto a fare movimenti che sforzano la sua postura e la misura che noi adottiamo chiaramente è anche quella adatta alla misura della lunghezza del braccio del bambino che quindi viene agevolato nella scrittura” (https://www.youtube.com/watch?v=jS3CTkqzVfU&t=4221s). E così ci sono scuole aderenti alla rete “Senza zaino” che chiedono di acquistare i quadernotti a tutti i genitori, non soltanto a quelli del bambino che ha qualche difficoltà nella scrittura e che potrebbe trarne vantaggio”.
Non è che in un simile contesto vi sia chi ha un tornaconto economico?
“Certamente qualcuno, in questi casi, ha un tornaconto economico. Ci sono pure scuole che, in nome dell’inclusività, offrono a tutti la possibilità di impiegare strumenti compensativi per i DSA. In questo caso, per evitare che qualche alunno si senta escluso perché deve usare certi dispositivi, non si pensa di attivare strategie che possano perlomeno contenere il ricorso ad essi, ma si estende a tutti ciò che la normativa prevede per i casi diagnosticati. Scriveva G. Israel sul Giornale il 22 aprile 2010: “Il DSA include la dislessia, e fin qui vi è poco da dire, trattandosi di un disturbo noto, anche se si dice che fossero dislessici Newton e Einstein, ovvero i più grandi scienziati della storia. Include poi la disgrafia, “disturbo di scrittura che si manifesta in difficoltà della realizzazione grafica”. Già qui c’è da saltare sulla sedia. In una scuola in cui non è più considerato necessario insegnare come tenere una penna in mano, coloro che hanno difficoltà nello scrivere sono una massa imponente. E in effetti, dal 2010 ad oggi, l’esplosione c’è stata”.
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