Adriana
Lafranconi, mandellese, ex docente: “Se la nuova definizione vuol essere un
richiamo diretto alla nostra Costituzione ben venga, perché in tal modo si
sottolinea l’impegno dello Stato per la crescita dei giovani. Ma il ministro
dovrebbe chiarire le ragioni della scelta”
Dall’inizio
del Duemila si è assistito più volte al cambio del nome del dicastero che fino
al 2001 si chiamava ministero della Pubblica istruzione, accorpato anche per un
certo periodo a quello dell’Università e della ricerca. Ora la nuova denominazione:
ministero dell’Istruzione e del merito. Quale significato è possibile
attribuire a questa nuova definizione? A rispondere è Adriana Lafranconi,
mandellese, ex insegnante, cultrice di pedagogia e collaboratrice presso
l’Università degli studi di Bergamo.
“L’impiego
dei nomi non può essere considerato un fatto casuale - premette - perché le
parole tracciano un’identità e sono espressione di un pensiero: Nomina sunt consequentia rerum,
sintetizzavano i latini. Non stupisce, dunque, il fatto che in queste ore si
moltiplichino le interpretazioni e i commenti sul nuovo nome da parte di vari
osservatori. Ma mi interroga il fatto che molti, da una prospettiva politica o
dall’altra, si pongano come detentori della corretta spiegazione. Certo sarebbe
necessario che chi ha voluto questa nuova titolazione ne spiegasse le ragioni. Commentare
dati di realtà, pro o contro, sarebbe molto più produttivo che lanciarsi sulla
strada delle ipotesi”.
E’ possibile
sintetizzare le interpretazioni che circolano in questi giorni?
“In
base a quanto ho potuto leggere finora, sono più frequenti le valutazioni
negative. Si può rimandare ai pareri dei responsabili scuola di alcuni partiti
all’opposizione, agli esperti di siti che si interessano della scuola ma anche
a scrittori come Enrico Galiano, a insegnanti sui loro blog, a esponenti del mondo sindacale quale ad esempio il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini”.
Quali le ragioni
di questa critica negativa?
“Nella
maggior parte dei casi la parola “merito” viene interpretata come riferita agli
allievi. Da qui i timori che si voglia una scuola selettiva, che premi i
meritevoli e abbandoni chi incontra difficoltà, di un’inversione di marcia
rispetto ai temi dell’inclusività, della funzione democratica della scuola, in
una concezione di produttività, di accelerazione, di competizione, di spinta
sui traguardi che sarebbero gli attributi della nuova prospettiva, forse dimenticando che il termine "traguardi" nelle indicazioni nazionali è stato inserito con il ministro Fioroni, nel secondo governo Prodi. In sintesi, con questa espressione si farebbe riferimento a una "scuola di qualità" per le élites contrapposta alla "scuola per tutti". Ma si
considera anche la possibilità che il “merito” sia relativo al profilo dei
docenti, come espressione della volontà di selezionare docenti capaci, quindi
con una possibile differenziazione della carriera e degli stipendi, con
conseguente ridimensionamento delle istanze sindacali, o con temute modifiche
nei processi di assunzione degli insegnanti”.
E quali invece le
motivazioni a favore della nuova definizione? Chi le sostiene?
“Anche
questa prospettiva vede la convergenza di profili diversi. Per fare qualche
esempio si possono citare il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini,
e il sociologo Luca Ricolfi, che è stato tra i papabili di questo dicastero. Poi ancora, sia pure con opportuni distinguo e precisazioni, il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra e Ivana Barbacci della Cisl Scuola, Carlo Calenda e una parte (minoritaria) di docenti. In questo caso
il merito è considerato principio che può ridare serietà all’istruzione e
all’educazione, antidoto al classismo, nella convinzione che l’abbassamento degli standard abbia
finito con l’amplificare le disuguaglianze sociali, per la riduzione delle
quali è necessario un rinnovato impegno con il coinvolgimento sia degli
insegnanti sia degli allievi”.
E qual è la sua
opinione sul tema oggetto di confronto?
“Sulla
necessità di rendere effettiva la meritocrazia tra i docenti mi sono già espressa
in passato su questo blog. Chi conosce, come lavoratore o come genitore, la
scuola, sa che non è vero che tutti i docenti sono di pari qualità, sa che
dalla qualità dei docenti può dipendere in misura significativa il successo
formativo degli allievi. E sa altresì quanto finora sia stato difficile
riconoscere il merito agli insegnanti migliori. Se ne è fatto un gran parlare senza che siano seguiti i fatti. Nello specifico dell’oggi, con riferimento al merito degli allievi, mi piace richiamare
la Costituzione italiana che, come sappiamo, all’articolo 34 recita: “…I capaci e meritevoli, anche se privi di
mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Se la
nuova definizione di questo ministero vuol essere un richiamo diretto alla
nostra Costituzione ben venga, perché in questo modo si sottolinea l’impegno
dello Stato per la crescita dei giovani, frequentanti la scuola pubblica, tutta,
statale o paritaria. Mi spiace invece leggere in queste giornate riferimenti alla figura di don Milani che rischiano di banalizzarne il pensiero. Lo si cita infatti, a ragion veduta, come esempio luminoso di scuola inclusiva, per il riscatto dei figli dei poveri, ma si tace purtroppo sul fatto che il prete di Barbiana sia stato esempio di uomo di scuola colto, che attuava un metodo personalizzato per i suoi ragazzi, a ciascuno dei quali dava il massimo, chiedendo contemporaneamente che ognuno di essi desse responsabilmente il proprio massimo possibile, che non si limitava a dichiarazioni generali ma concretizzava il proprio pensiero in una scuola coerente con esso, come ben ebbe ascrivere al maestro Mario Lodi".
Alla luce anche di queste considerazioni, a suo giudizio cosa dovrebbe fare quindi il nuovo ministro?
"Certamente il ministro Giuseppe Valditara farebbe bene a
chiarire le ragioni di questa scelta, non con proclami e con linee guida ma con
chiare ed essenziali parole, capaci di attivare un dibattito consapevole. Altrimenti
non possono che improvvisarsi gli esegeti e moltiplicarsi voci che non giovano
alla qualità della scuola. Come questa espressione che figura nel blog della
maestra Elena: “Non so, ma io non la voglio la scuola del merito. Io voglio la scuola
che merito e che meritano tutti i bambini e le bambine”. O come le parole del giornalista Saverio Tommasi che su Fanpage.it dice testualmente: "Parlare di merito significa levarsi dalle palle i cerebrolesi o i tracheostomizzati, pensando che questo possa favorire l'apprendimento di chi non ha uno zainetto invisibile con una sindrome dentro". La scuola non ha
bisogno di luoghi comuni e neppure di denunce "di pancia", ma va messa nella condizione della chiarezza, premessa
indispensabile per una critica costruttiva e razionale. Anche questa è responsabilità di
chi sta ai vertici".
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