In Dolomiti si è espresso al massimo delle sue potenzialità e ha conquistato quei successi che hanno fatto di lui uno degli alpinisti più eminenti della sua generazione
Giorgio Redaelli |
di Renato Frigerio
Si va inesorabilmente riducendo la schiera degli alpinisti lecchesi che nell’ultimo trentennio del secolo scorso hanno tenuta viva la gloriosa tradizione che per lungo tempo ha portato ai vertici dell’ammirazione nazionale il nostro territorio. L’ultima dolorosa perdita è quella del mandellese Giorgio Redaelli, che se n’è andato domenica 27 febbraio all’età di 86 anni.
Se ora lo rimpiangiamo è soprattutto per aver conosciuto l’intensità e la concretezza della sua passione per la montagna, a cui ha dedicato la sua vita e le sue iniziative.
Per giustificare l’elogio che gli attribuiamo si dovrebbe ricorrere a un lungo elenco di prestazioni che, pur se completo, a stento riuscirebbe a disegnarne l’aspetto alpinistico e umano. Del resto come si potrebbe condensare in un articolo il racconto autobiografico con cui lui stesso si è ampiamente descritto, partendo dalla sua origine e dalla sua infanzia fino al 2004, l’anno in cui ha dato alle stampe il libro “Momenti di vita”?
Qui, fortunatamente, veniamo a scoprire tutto di lui: vale a dire, oltre alla realtà di avvincenti racconti di avventurose conquiste e di suggestive situazioni esistenziali, si evidenziano la personalità e il carattere di un uomo che, puntando al successo dei suoi straordinari obiettivi, non ha esitato a mettere nel conto rischi, sofferenze e insidie di ogni genere.
Redaelli in una foto che lo ritrae con Walter Bonatti. |
Giorgio Redaelli era nato il 30 luglio 1935 a Molina di Mandello Lario. Crescendo ai piedi delle Grigne, proprio sotto la maestosità monolitica del Sasso Cavallo, non doveva essere difficile e raro per un ragazzo venire attratto dalla passione per l’arrampicata. Così fu anche per lui, che dopo il versante settentrionale delle Grigne volle sperimentare le frastagliate torri e le pareti della Grignetta.
Per chi è destinato a più grandi cose, è innato il senso di andare alla ricerca di emozioni sempre più gratificanti, che per lui voleva dire approdare dove la salita porta alle quote più elevate e la scalata diventa più impegnativa.
Ormai non è più un alpinista sconosciuto e sembra che per lui si stia aprendo un periodo di particolare fortuna. Questo accade quando i lunghi mesi del servizio militare li svolge ad Aosta come istruttore nella Scuola militare alpina. Qui trova l’ambiente ideale per sbizzarrirsi e scalare tutto ciò che vuole, ma ha anche l’opportunità di conoscere a fare amicizia con i grandi dell’alpinismo che frequentano le Alpi. Con alcuni di loro riesce anche a effettuare importanti ripetizioni di vie lunghe e estremamente difficili sulle imponenti pareti del Monte Bianco, dove nel 1956 inserirà il suo nome insieme a quelli di Cesare Giudici, Dino Piazza e Carlo Mauri nella prima ripetizione della via Bonatti, sul pilastro Sud-ovest al Petit Dru.
Ancora qui, nel 1957, “guadagna” la prima ripetizione della via Rébuffat all’Aiguille de la Brenva e la prima ripetizione, con Giuseppe Conti, della via Ottoz all’Aiguille Croux.
Sono però le candide rocce delle Dolomiti a imporsi come teatro prediletto per le sue arrampicate, dove si afferma soprattutto nella veste di uno dei più quotati protagonisti dell’alpinismo invernale tra gli anni ’50 e ’60. In particolare la sua preferenza cade là dove si svolgono le vie storiche sulla Civetta.
Non può esserci dubbio alcuno che questa sia la montagna che lo ha letteralmente stregato, dove si è espresso al massimo delle sue potenzialità e dove ha conquistato quei tanti successi che hanno fatto di lui uno degli alpinisti più eminenti della sua generazione.
Ma se il suo nome è legato strettamente alla Civetta, alla Torre Trieste, alla Torre Venezia, al Pan di Zucchero, alla Cima del Bancòn, alla Torre delle Mede, alla Cima di Terranova e alla Cima Su Alto, altrettanto si può asserire che il nome Civetta riconduce immancabilmente a lui. Per questo motivo non è possibile evitare di indicare quali siano le orme indelebili che ha lasciato sulle pareti di questa montagna: una via nuova direttissima sulla Torre Trieste, realizzata con Ignazio Piussi nel 1959; una via nuova sullo spigolo Sud-ovest della Torre Venezia, realizzata nel 1960; una via nuova sulla parete Est della Torre delle Mede, realizzata nel 1961; la prima invernale della parete Nord-ovest, diedro Livanos, sulla Cima Su Alto, nel 1962; una nuova via sulla parete Nord-ovest al Pan di Zucchero, direttissima (con variante alla via Tissi) realizzata nel 1962; la prima invernale della “Solleder” sulla parete Nordovest della Civetta nel 1963, in cordata con Ignazio Piussi e Toni Hiebeler, in 8 giorni e con 7 bivacchi; la prima invernale della via Gabriel-Da Roit sulla Cima del Bancòn, realizzata nel 1967; la prima invernale della via Tissi sullo spigolo Ovest della Torre Trieste nel 1967; una via nuova sulla parete Est dello Spallone del Bancòn “firmata” nel 1968.
Era necessario dilungarsi su queste, che sono comunque soltanto alcune delle assidue frequentazioni di Giorgio Redaelli nella sua Civetta, per evidenziare che la sua presenza nel gruppo dolomitico del Civetta tra l’Agordino e la Valle di Zoldo, nel Bellunese, non è sfuggita e tanto meno dimenticata dalle associazioni locali, così che persino a distanza di molti anni - nel luglio 2016 - a Santo Stefano di Cadore gli era stato conferito “alla carriera” il premio alpinistico “Pelmo d’oro”. Analogo riconoscimento era stato preceduto nel 1999 dall’assegnazione del “Premio SAT” per l’alpinismo, attribuito dalla Società Alpinisti Trentini.
Sembra del tutto superfluo precisare che il suo rapporto con la montagna è andato oltre l’alpinismo e non è rimasto limitato al periodo della sua intensa attività. La sua passione per la montagna si è espressa continuamente in varie iniziative, che vanno dall’organizzazione di serate illustrate con diapositive e filmati, alla cura formativa indirizzata alla pratica dell’alpinismo.
Sotto questo aspetto il suo impegno è risultato incisivo nella fondazione di scuole per l’alpinismo, precisamente nel 1959 per la scuola “Gino Carugati” del Cai Mandello e nel 1966 per la scuola “Attilio Piacco” del Cai Valmadrera, diventandone in entrambi i casi il direttore per alcuni anni.
La montagna l’ha infine potuta godere serenamente nella pace del suo rifugio “Aurora”, che aveva costruito all’inizio degli anni Settanta ai Piani di Artavaggio, sopra Moggio in Valsassina, e che gestì insieme alla moglie Aurora fino al 2006, dopo che nel 2002 era stato accolto nel Gruppo Ragni della Grignetta come socio onorario.
Per lo straordinario modo con cui Giorgio Redaelli ha amato la montagna e praticato l’alpinismo c’è da augurarsi che la memoria di lui possa resistere al tempo e alle mode, soprattutto riguardo a un territorio che lo ha applaudito in vita e che ancora si vanta di una tradizione davvero speciale.
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