Estate 1944, il comandante Lino Poletti e i suoi uomini a Era presso il comando della 89.ma Brigata Poletti. |
Era il 1991 e
Lino Poletti, che fu comandante della 89.ma Brigata Poletti, incontrò gli
alunni delle scuole di Mandello e Abbadia Lariana per raccontare loro la sua esperienza partigiana
e rievocare alcune tra le pagine più significative della lotta partigiana
combattuta sul territorio mandellese. Quella che segue è la trascrizione della
sua testimonianza a suo tempo registrata dagli stessi alunni incontrati da Poletti.
“Il
mio gruppo di comando comprendeva il territorio dai Piani Resinelli alla
Valsassina. Era la 89.ma Brigata Poletti, non per il mio nome ma per quello di
mio fratello e di mio cugino, che furono uccisi. Le prime azioni di resistenza
furono condotte in modo disorganico, non si sapeva bene cosa fare. E quando
chiesi al comando come dovevo agire, il colonnello mi rispose di farlo
intelligentemente.
Battaglia dei Resinelli e di Erna, prigionieri e
rifornimenti
Il
17 settembre 1943 c’è stato un grande rastrellamento tedesco ai Resinelli. Chi
dalla parte della Rosalba chi dal Pialleral, sono rimasti in montagna finché il
rastrellamento è finito. Ma non è stato un rastrellamento di grandi
proporzioni. Era un giorno che pioveva, non ci si vedeva da qui a lì, c’era
nebbia. Invece dall’altra parte, verso i Piani d’Erna, c’è stato un combattimento.
Lì c’erano tanti prigionieri che erano stranieri, fuggiti dal campo di
concentramento di Bergamo.
Questi
prigionieri sono arrivati ai Resinelli e io li portavo via. Li riceveva “Sterlina”
(il Micheli, che aveva la moglie inglese) e li portavo a Olcio a prendere il
treno, li nascondevo nei vagoni carri-merce e li portavo a Dorio. Lì c’erano i
barcaioli che li portavano a Domaso e da Domaso a Livo e lì le guide che li
conducevano in Svizzera. Si pagava 800 lire per ogni prigioniero liberato, ma
non sono arrivati tutti. C’erano anche delle guide vigliacche che portavano via
ai prigionieri persino i cappotti... cose necessarie per sopravvivere durante
l’inverno in montagna.
Ero
rimasto da solo, allora ho avvicinato il colonnello Morandi e il colonnello
Pini, che era già anziano, ma dal quale un aiuto morale l’ho sempre avuto.
Si
è iniziato subito a creare la formazione: quelli che erano chiamati alle armi
non andavano. Nella vallata dentro Rongio c’erano alcuni casolari e gruppetti
di 4 o 5 stavano nascosti là. Si portava loro da mangiare ma non ci si faceva
capire dagli estranei perché erano pochi. Non erano armati, come facevano a
resistere?
Si
è arrivati a Natale. Una quarantina nascosti nella vallata, il gruppo più numeroso
era quello di Somana perché lì abitavo io. Ci siamo organizzati in una vera
formazione: quando i giovani venivano chiamati per essere reclutati
nell’Esercito fascista non si presentavano, si rifugiavano sulle montagne perché
i carabinieri e i fascisti sarebbero venuti a casa a prelevarli come disertori.
Succedeva
però che non potendo vendicarsi contro i figli minacciavano i padri, li
arrestavano e li mettevano in prigione. Allora abbiamo usato questo sistema:
quando venivano chiamati si presentavano, dopodiché sparivano per cui ufficialmente
risultavano militari.
Ci
occorrevano i rifornimenti di armi, si facevano azioni per impadronirsi delle
armi di pattuglie tedesche e fasciste; si cercava di recuperare le armi che
erano state nascoste ai Resinelli perché quelli che erano scappati dopo il rastrellamento
del 17 ottobre le avevano nascoste. Io ho corso un rischio enorme. Il generale Morandi
mi ha detto che un certo ufficiale di Lecco che si era presentato agli alpini
di Morbegno e sapeva dove erano nascoste le armi ai Resinelli.
Ho
preso il treno a Lierna e sono andato a Morbegno. In caserma ho chiesto di lui.
Appena mi ha visto è rimasto stupito, io l’ho preso da parte e gli ho detto: “Tu
sai dove sono le armi, io voglio sapere dove sono. Ricordati, però, se vuoi farmi
un brutto tiro, che io non sono da solo, in Morbegno ce ne sono 8 o 10 che ti faranno
la pelle prima di sera”. L’ufficiale mi ha detto dov’erano le armi. Mentre mi
stavo dirigendo verso la stazione ho visto un movimento di pattuglie che mi ha
insospettito, allora ho preso la strada della Val Gerola, sono andato fino a
Pescegallo e sono sceso da Biandino fino a Introbio a piedi.
I
miei sospetti si sono rivelati infondati perché l’ufficiale non aveva fatto la
spia.
Rastrellamenti di Olcio, Lierna e Abbadia e Radio Londra
Abbiamo
avuto degli attacchi. A maggio c’è stato un piccolo rastrellamento, ci sono
stati scontri a Olcio, a Lierna, ad Abbadia. Noi dovevamo agire con intelligenza
e ragionare prima di tutto, perché noi i tedeschi li avevamo fuori della porta.
Uccidere i tedeschi era una stupidaggine. Ucciso uno di loro, venivano uccise
per rappresaglia 10-20-30 persone che le spie segnalavano come collaboratori
dei partigiani.
A
Laghetto di Colico per la morte di un tedesco hanno bruciato il paese, ne hanno
presi 3 o 4 e li hanno fucilati.
Ci
rifornivamo di armi e munizioni anche con i lanci che ci venivano comunicati
con messaggi diffusi da Radio Londra. Dicevano ad esempio “Caterina non balla” tre
volte. Noi dovevamo ricevere il messaggio, la quarta voleva dire: preparatevi
che al posto stabilito ci sarà il lancio.
Arrivati
sul posto, accendevamo 3 fuochi a triangolo, prendevamo lattine di benzina e i fuochi
venivano accesi contemporaneamente subito dopo aver individuato l’aereo che
doveva sorvolare, facendo due giri.
Si
ricevevano armi, munizioni, viveri. In un primo momento si nascondeva tutto e
si spariva perché c’era il pericolo che giungessero i tedeschi o i fascisti,
poi si suddivideva.
Brigate nere, tedeschi, torture e fucilazioni
Si
è arrivati al 2 agosto del ‘44 ed è successo l’episodio di Peppino e Giovanni.
Peppino, mio fratello, è morto sulla strada di Rongio, massacrato e buttato nel
fiume. E’ avvenuto per tradimento. Erano scesi per fare rifornimento di viveri
nel negozio di Simone Lafranconi. Alcune spie hanno saputo che erano lì e sono
andate ad avvertire le brigate nere. Erano in tre e li hanno portati da Rongio
a Molina. Sono stati i fascisti a portarli dai tedeschi.
Mio
fratello durante il percorso ha tentato di scappare, gli hanno sparato e l’hanno
buttato nel fiume lasciandolo in agonia per 24 ore. Gli altri, il Giovanni Poletti
e l’Andrea Rompani, li hanno portati al comando tedesco. Giovanni è stato
torturato, poi è stato portato al cimitero di San Zeno e fucilato. Andrea
Rompani l’hanno tenuto a Como. Volevano deportarlo o fucilarlo, ma con la
mediazione di una signora (la “Valchiria”) abbiamo ottenuto la sua libertà in
cambio di una sospensione delle nostre azioni per un certo periodo.
Il
26 ottobre i nostri hanno avuto un contatto con due polacchi, i quali hanno
promesso che ci avrebbero rifornito di armi e munizioni e si sarebbero uniti a
noi. Siamo scesi a Somana, piovigginava, abbiamo attraversato il Meria a Rongio
e siamo arrivati in località Moiola. All’ultimo istante, quando i polacchi sono
arrivati, ho avuto un presentimento e ho gridato: “Tutti a terra”. Un attimo
dopo la bomba è scoppiata.
Morganti,
che aveva la cassetta delle munizioni, è saltato in aria. Io ero ferito al
braccio, a una gamba e alle spalle… ero una piaga unica. Adamo Gaddi è morto in
casa del dottor Stea, Davide Gaddi è morto subito. Io sono stato trovato a
mezzanotte. Ero convinto di morire e lo desideravo anche perché pensavo: “Se mi
prendono mi fucilano”.
I
tedeschi lanciavano razzi. Quando sono arrivati mi hanno dato tre calci nella
gamba rotta, poi mi hanno portato via in barella. La mia gamba penzolava dalla
barella e l’avevano messa girata al contrario. Io dicevo loro di portarmi al
cimitero a fucilarmi, non volevo essere interrogato. Invece mi hanno portato
dal dottor Stea, il quale mi ha medicato... In tasca avevo un messaggio che mi
era stato consegnato la sera stessa da Giulia Zucchi. Ho fatto capire a Stea
che avevo il messaggio del lancio, la moglie ha messo il cotone e la garza che
adoperava per disinfettare vicino alla gamba e io, mentre mi lamentavo, ho
fatto scivolare il portafogli sotto la garza. Lei ha finto di prendere la garza
sporca in cui era avvolto il portafogli per buttarla in pattumiera.
La fine della guerra festeggiata a Lierna dai partigiani della 89.ma Brigata Poletti. |
Volevano
portarmi all’ospedale di Lecco dove c’era il dottor Pensa, che era un
repubblichino. Il dottor Stea sapeva che andare a Lecco significava essere
ucciso.
Ha
fatto chiamare la Croce rossa di Bellano che però non è arrivata perché quella
notte si sparava a Lierna, ad Abbadia, a Regoledo e nessuno voleva muoversi.
Allora
hanno chiamato i vigili del fuoco di Bellano e mi hanno caricato sopra la piattaforma.
La moglie del dottor Stea mi ha messo addosso una coperta ma i tedeschi me l’hanno
strappata di dosso dicendo: “Via! Bandito!”. Ero un bandito, per loro, e non meritavo
la coperta.
Ero
moribondo ma capivo. Hanno chiamato il prete, don Luigi, ma io ho chiesto alla
suora un bicchiere di vino e una sigaretta e il dottor Scuri ha detto a don
Luigi: “Don Luis, desmett che te tre via
el temp!”. Dopo però sono stato
male, deliravo, dicevo cose che non dovevo dire. Chi mi ha salvato è stato un
sottotenente che era stato ferito da noi. L’ha detto a mia sorella e mi hanno
portato in una stanza privata e sono stato 5 o 6 giorni in coma.
Hanno
tentato di fucilarmi, i fascisti. Dall’ospedale ne avevano già prelevati due e
li avevano massacrati: uno era stato trascinato a Fiumelatte e fucilato, l’altro
è stato fucilato a Introzzo. Io sono stato salvato dai tedeschi, i quali
sapendo che ormai la liberazione era vicina speravano di avere clemenza
salvandomi la vita.
Quando
vi erano i tentativi dei fascisti di prelevarmi veniva avvertito il comando
tedesco che si opponeva, dicendo che io ero loro prigioniero. Alla fine il
dottor Volterra fece un rapporto favorevole.
Dopo
la Liberazione solo un fascista fu fucilato a Mandello. Si giudicavano le
azioni condotte contro la collettività. Il comando partigiano si era stabilito nelle
scuole di Molina dove prima c’era il comando tedesco. Subito dopo la Liberazione
ho ricevuto tante denunce non firmate: parecchie persone per vendette personali
denunciavano al-tre come fascisti. Io ho detto che si accettavano solo denunce
firmate, pochi si sono presentati e dopo qualche giorno le ho stracciate.
Il patriottismo dei mandellesi
La
popolazione di Mandello ha aiutato molto i partigiani, ci ha rifornito di
viveri nonostante si vivesse poveramente perché l’agricoltura era povera. Ogni
volta che ci venivano consegnati dei viveri, firmavamo una ricevuta… Il dottor
Stea e il dottor Volterra ci hanno molto aiutato rischiando la loro vita per
andare ad assistere i partigiani feriti. Anche le industrie ci hanno aiutato:
la Moto Guzzi, la “Carcano”, la Gilardoni…”.
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