A fine marzo aveva diffuso il suo accorato appello a
chiunque avesse un familiare degente in ospedale nei giorni e nelle settimane
dell’emergenza coronavirus. “Anche un semplice foglietto con scritto “noi ti
pensiamo” - vi si leggeva - farebbe piacere a un vostro caro. Io ci sono, nel
mio piccolo, perché mi rendo conto di essere una piccola goccia in un oceano,
ma vi prego di esserci anche voi, per i vostri cari. Io ho perso un fratello 10
anni fa e pensavo di aver toccato con mano ogni sofferenza. Ma mi sbagliavo. La
sofferenza la sto vivendo ora, ogni giorno, negli occhi dei miei pazienti. E’
davvero straziante, prenderei volentieri un po’ delle loro sofferenze se
sapessi di poter alleviare il loro dolore”.
Graziella Belcaro, mandellese, operatrice
socio-sanitaria in servizio presso il reparto Nefrologia del “Manzoni” di
Lecco, aveva visto (e continua a vedere) tanta sofferenza. E tanta angoscia da
parte dei pazienti.
Ora una nuova testimonianza, o per meglio dire un
grido di dolore proprio per uno di loro, un paziente che non ce l’ha fatta.
“Tu no, tu dovevi farcela - scrive Graziella - L’ultima
notte che ho fatto, ti ho chiesto: “Vuoi chiamare tua moglie, tua figlia?”. Sai,
avevo notato il cellulare che avevi sul comodino, era l’ultimo modello Samsung e
così avevo capito che in fatto di tecnologia te ne intendevi. Mi hai risposto: “No,
non ho il coraggio di farmi vedere così?”.
Eppure
dovevi chiamare la donna che amavi, quella donna con cui hai condiviso una
parte della tua vita, ma anche lì tu hai pensato al suo bene. Avevi il casco C-Pap,
ma dicevi che “era tutto ok”. No, non era tutto ok.
La tua saturazione si abbassava, ma tu eri un uomo umile, quell’umiltà ormai
dimenticata. Ti ho detto: “Forza, mi raccomando, non mollare, la febbre è scesa
ed è un buon segno”.
Tu con i tuoi occhioni rossi di lacrime,
mi hai guardato: “Sì, non mollo”. Puoi abituarti a tutto, al camice da mettere
prima di entrare in camera, alla mascherina che ti lascia il segno sulla
fronte, ma non agli occhi pieni di tristezza. Quelli rimarranno come cicatrici
nella nostra mente .
Ti abbiamo stretto la mano, in quel
momento avrei voluto abbracciarti, quell’abbraccio che in questo momento è
negato. Ma ero bardata, avevo camice, mascherina, occhiali. Forse avrei potuto
darti quell’abbraccio, perché non ho seguito il cuore? Abbracciarti.
Tu dovevi farcela perché eri un paziente
che mi eri entrato nel cuore. Sai, ogni tanto capita che ci siano pazienti che
ti entrano nel cuore, sono speciali. In Nefrologia è così, anche se sono lì da
poco più di un anno. Devi sapere che ci si conosce, impariamo a conoscere le
vostre abitudini e a conoscere il vostro carattere. Tu eri una persona buona,
non avevi pretese, sempre sorridente.
Tu dovevi farcela, non dovevi andartene.
Dovevi tornare da tua moglie e dai tuoi figli. Dovevi ritornare, forse tra
qualche mese, a fare i controlli da noi. A sorridere con noi. Tu eri una
persona buona, un signore. Non meritavi di morire da solo, senza la tua
famiglia. Con un casco in testa in un letto d’ospedale, con delle lenzuola con
sopra scritto “azienda ospedaliera di Lecco”.
Dovevi tornare a casa… Hai lasciato in
tutti noi un grande vuoto. Buon viaggio, guerriero".
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