Carlo Mauri, morto nel maggio 1982. Avrebbe compiuto 90 anni lo scorso 25 marzo. |
di Claudio Bottagisi
Alpinista
e viaggiatore. Esploratore e navigatore. E un autentico personaggio, con una
curiosità insaziabile nei confronti del mondo e degli uomini che lo abitano.
Carlo Mauri era tutto questo. E il mese scorso avrebbe compiuto 90 anni,
essendo nato a Lecco il 25 marzo 1930.
Quando il rischio è
vita è il titolo del libro che lui scrisse nel 1975 e che nel 2015 venne riproposto
in una nuova edizione, con nuove fotografie e un’appendice sull’esperienza del
“Bigio” in Unione Sovietica. Un libro che non ha perso nulla della freschezza e
del fascino di quel tempo, un po’ quello che accade per i grandi classici.
“Penso
e scrivo la mia storia - vi si legge - come se scrivessi e pensassi di un altro
uomo… O meglio di altri uomini, di tanti quanti in ogni atto, avvenimento, caso
o avventura si sono trasfigurati in me: diventando un alpinista delle Alpi, uno
sherpa sull’Himalaya, un eschimese in Groenlandia, un discendente degli Incas
sulle Ande, un masai sul Kilimangiaro, un uomo primitivo tra gli indiani
d’Amazzonia e tra gli aborigeni del deserto australiano”.
“A
volte - sono sempre parole del “Bigio” - per adattarmi all’ambiente ho
dimenticato la mia cultura e sono sopravvissuto con il solo istinto, come un
animale. Ho immaginato di essere un pinguino all’Antartide e anche un delfino,
quando navigavo a vela nelle acque tempestose di Capo Horn…”.
Poi
un’altra riflessione: “Così non pongo limiti all’esistenza e proseguo, resisto,
superando il caso che sembrava incredibile: in questo modo si compie il
miracolo di scoprirmi la forza che genera in me la “fede”, che è fiducia,
lealtà, impegno e adesione fervida a un ideale. E’ una forza misteriosa che
hanno certi popoli del deserto o della foresta e anche i pescatori in mare, i
contadini sulla loro terra e tutti gli uomini nella loro infanzia e che poi
lasciano condizionare e atrofizzare insieme con gli altri cinque sensi e con la
fantasia”.
Carlo
Mauri, tra i fondatori a metà anni Quaranta dei Ragni della Grignetta, fu
protagonista negli anni Cinquanta del secolo scorso di eccezionali prime
scalate in solitaria o in cordata con Walter Bonatti sul Bianco e in Dolomiti,
ma anche di spedizioni extraeuropee, tra cui quella guidata da Riccardo Cassin
che lo portò (sempre con Bonatti) in vetta al Gasherbrum IV.
In
seguito, alla ricerca di avventure e di nuovi mondi da esplorare, il “Bigio”
attraversò l’Oceano Atlantico con il “Ra”, un’imbarcazione in papiro, percorse
a cavallo la “via della seta” con il figlio adolescente, fu in Patagonia e
lungo il Rio delle Amazzoni, realizzando documentari e reportage per la Rai.
Ottenne
prestigiosi riconoscimenti in campo internazionale. Fra i tanti basterebbe
citare, per quanto riguarda l’alpinismo, l’appartenenza al Caai, il Club alpino
accademico italiano, poi il diritto di fregiarsi del distintivo del Group de
haute montagne, associazione élitaria fondata nel 1919 in Francia per riunire i
più forti alpinisti d’Oltralpe e di altre nazionalità, purché di fama
internazionale.
Carlo
Mauri non correva, non voleva battere record. Viaggiava per
conoscere meglio gli uomini e se stesso nel rapporto con loro. Non lasciano
dubbi in proposito alcune sue riflessioni, come questa: “A poco a poco
l’Oriente mi ha fatto perdere la bussola: la mia origine occidentale si è
dissolta”. E ancora: “Ho imparato presto ad amare gli afghani, uomini pieni di
passione, che mettono paura tanto sono vitali. E’ straordinario sentirseli
amici”.
Ecco
allora il “Bigio” esploratore. E il suo approccio con la popolazione
dell’Amazzonia, dove giunse per la prima volta nel 1966 su invito del
missionario padre Augusto Gianola e dove tornò sei anni più tardi. “Di quelle
due esperienze - ricorda il lecchese Renato Frigerio, uomo di montagna, profondo
conoscitore dell’alpinismo e dei suoi più autorevoli interpreti - Mauri scrisse
con parole commoventi e intrise di straordinaria passione umanitaria nei
reportage pubblicati sulla Domenica del
Corriere. Lì, come altrove, la simpatia e, più ancora, l’affetto del
“Bigio” andavano incondizionatamente agli uomini, alle donne e ai bambini che,
nello loro primordiali capanne, popolavano i recessi della selva, in condizioni
da età della pietra…”.
“Con
analoga disposizione d’animo - ricorda sempre Frigerio - nel ‘67 approdò nel
continente dei canguri con l’interesse rivolto alle tribù aborigene, che osservò
alla luce della loro purezza di razza umana, forse padri dei nostri padri, in
una oscura prospettiva di secoli. Dall’Australia alle regioni artiche il passo
non era breve, eppure soltanto un anno dopo Mauri non badò a cambiare gli
opposti passaggi, il clima totalmente diverso e le situazioni ambientali di
tutt’altro genere: per lui la Groenlandia e il Mare Artico rappresentavano
l’appagamento di un sogno, l’accostamento ai più interessanti personaggi
storici dell’esplorazione, quelli più vicini al suo modo di interpretare l’avventura”.
Poi
il capitolo della sua vita legato all’incontro con Gavril Ilizarov e
all’impegno con cui si impose di diffondere la tecnica sviluppata da quel
medico ortopedico che consente di allungare ossa fratturate fino a 12
centimetri, al paziente di camminare soltanto tre giorni dopo l’intervento e
all’arto operato di avere una perfetta stabilità. Quella stessa tecnica, per la
cronaca, era stata sperimentata in Siberia da Carlo Mauri con un risultato sorprendente.
“Fu
un progetto ostacolato da enormi incomprensioni e diffidenze - osserva sempre
Renato Frigerio - ma a sostenere quella coraggiosa iniziativa premevano le
situazioni dolorose e avvilenti di tanta gente che Mauri aveva visto trascinarsi
per le corsie degli ospedali. La sua fu dunque una battaglia combattuta con
appassionato accanimento, nell’intensa campagna promozionale in cui si
manifestava pienamente la sua sensibilità e la bontà del suo cuore. Il
risultato positivo si realizzò con la massima soddisfazione a partire dalla
struttura ospedaliera di Lecco e proseguì, analogamente e speditamente, in
molte altre città italiane, a conferma della potenza persuasiva del “Bigio” e
del fascino innato con cui riusciva a contagiare le persone che incontrava”.
Carlo Mauri in una foto che lo ritrae con Walter Bonatti. |
Carlo
Mauri morì a soli 52 anni, un giorno di fine maggio dell’82, stroncato da un
infarto sulla ferrata del Pizzo d’Erna. Fino alla fine in montagna, verrebbe da
dire. E non a caso le montagne sono sempre state parte integrante della sua
quotidianità, sia nella bellezza delle molteplici forme di incantevoli guglie
su cui erano state aperte le vie che portano alla vetta, sia nelle maestose
dimensioni di più severe pareti.
Pochi sanno che il BIGIU (poi italianizzato in BIGIO) ha passato l'infanzia a balia tra Somana e Rescia di Era presso la famiglia del Gaddi Gerolamo "Busack". Somana in inverno ed Era in estate. Agosto 1947 (testimonianza diretta di Giovanni Zucchi) il diciassettenne Bigio con il suo "mitico" secondo Duilio Dell'Era, accompagnati in loco da Andrea Gaddi "Gurlet", in giornata ripeterono la via "Bianca Maria", aperta nel 1933 da Riccardo Cassin sul Sasso a Cavallo (italianizzato in Sasso Cavallo, distorcendone il significato toponomastico) . Difficoltà della via: VI/VI+ e A1
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