Nicola Ruberto in una foto dei primi anni Novanta con il piccolo Stefano. |
Da giovane aveva intrapreso la professione di idraulico lavorando alle dipendenze di Fabrizio Zucchi. Nel 1970 la decisione di Nicola Ruberto di mettersi in proprio e di avviare una sua termoidraulica e lattoneria. Adelia Mirarchi, sua compagna nella vita di ogni giorno, nell’86 apre “Idea bagno e arredo”, attività in cui Nicola entra qualche anno dopo per occuparsi sempre di termoidraulica e di arredamento per la casa con il negozio gestito al civico 22 di via Oliveti.
Una
notte del 2004 un’ischemia cerebrale colpisce Ruberto e per lui iniziano i
problemi. E il calvario. Nel 2006 un intervento al cuore lo ferma
definitivamente e qualche anno più tardi ecco i primi sintomi della demenza
vascolare, conseguenza delle ischemie multiple avute durante l’operazione.
Nel
2008, tuttavia, inaugura il nuovo magazzino in via Parini 2. Con lui ci sono i
figli Enrico ed Elena, che entrano a pieno titolo nell’attività professionale
cambiando la ragione sociale. Nasce così “Progetto casa”, attivo tuttora.
Nel
novembre 2019, sei anni dopo la scomparsa della moglie, Nicola Ruberto - padre
di tre figli (oltre ai già citati Enrico ed Elena anche Stefano, nati rispettivamente
nel ’78, nell’80 e nel ’90) - entra in una residenza sanitaria assistenziale
della provincia lecchese. E quest’anno, il giorno di Pasqua, il decesso.
A
ricordare il padre, a nome anche del fratello e della sorella, è ora Stefano
con questa sentita e commovente testimonianza:
“Mio padre è morto
per Covid-19. E’ morto in una Rsa della provincia di Lecco, quello che doveva
essere il posto più sicuro al mondo, preventivamente chiusa ai parenti a fine
febbraio per i primi casi scoperti in regione.
Mio padre era
affetto da demenza vascolare. Io lo definivo un bambino in un corpo di 70 anni.
Il suo cervello era una discoteca a cui pian piano chiudevano alcune sale
aspettando di abbassare definitivamente la serranda, ma in quel corpo c’era
ancora musica.
Mio padre ha
iniziato ad avere problemi verso i 55 anni, dopo una vita passata a lavorare. Era
uno di quei “terroni” che era riuscito ad aprire un’azienda insieme a sua
moglie, è riuscito a mantenere tre figli e a non far mancare mai niente a
nessuno.
Mio padre non lo
vedrete nei numeri pubblicati qua e là, perché in tre settimane di febbre alta
e problemi respiratori non ha mai fatto un tampone, non è mai stato dichiarato
positivo ed è morto solo.
Le uniche
notizie le avevamo tramite una dottoressa a casa per il Covid-19 che in caso di
variazioni ci chiamava per aggiornarci della situazione in base a quello che le
veniva riferito dal reparto.
Nicola Ruberto con Stefano in una fotografia di questi ultimi anni. |
All’inizio di
tutto questo siamo stati avvisati che in un reparto, non quello di mio padre,
era stato accertato un caso di coronavirus perché un ospite caduto a terra,
dopo esser stato portato in ospedale, aveva appreso di essere già contagiato.
Non era il reparto giusto, “...però sappiate che tutti hanno la febbre alta, ma
vostro padre no”.
Dopo questa telefonata c’è stato un silenzio durato otto giorni, interrotto soltanto da una mia chiamata nella quale esigevo aggiornamenti. “Lei deve preoccuparsi soltanto se la chiamo, se non la chiamo va tutto bene”. E infatti è andata proprio così. Il 28 marzo mio papà presentava febbre alta e saturazione stabile a 93.
Dopo questa telefonata c’è stato un silenzio durato otto giorni, interrotto soltanto da una mia chiamata nella quale esigevo aggiornamenti. “Lei deve preoccuparsi soltanto se la chiamo, se non la chiamo va tutto bene”. E infatti è andata proprio così. Il 28 marzo mio papà presentava febbre alta e saturazione stabile a 93.
Il 3 aprile ho
visto in videochiamata per l’ultima volta con mia sorella mio padre. Non ci
voleva parlare, sembrava offeso perché da oltre un mese non andavamo più a
portargli la cioccolata e a passeggiare nel parco, dove avevamo promesso di
organizzare una grigliata ad agosto come facevamo una vita fa quando tutto era
un problema ma avevo ancora le persone che mi hanno messo al mondo.
Da lì in avanti più
nulla, non l’abbiamo più visto. L’ultimo giorno, il 12 aprile, sono stato
contattato stranamente di mattina perché mio padre era peggiorato, da due
giorni aveva l’ossigeno e - a detta del medico, uno nuovo direttamente dal
reparto - gli avrebbero cambiato il farmaco “perché magari fa come altri
pazienti che hanno avuto un tracollo e poi si riprende”.
A quel punto
avevo chiesto soltanto una cosa, di farmi vedere mio padre e quel nuovo dottore
mi aveva promesso di farmi chiamare immediatamente dalla caposala che si
occupava delle videochiamate. Passano sei ore, chiamo la struttura per avere
notizie e mi viene risposto che la caposala è andata a casa e non ha potuto
chiamarmi. Due ore dopo mi chiama il dottore: “Le devo dare una triste notizia,
suo padre è appena deceduto”.
In tutta questa
storia mi spiace di aver lasciato sola la persona che ha pregato dieci anni
della sua vita per avermi, quello che tanti anni fa credevo un supereroe perché
era forte e non piangeva mai, quello che ho visto piangere perché in una
maledetta notte un’ischemia gli aveva portato via la parola e non sapeva come
comunicare. Ti voglio bene,
papà!
Stefano
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