Carla Carnevali Finoli |
Oggi è un mese
esatto dalla sua morte. Era infatti il 14 gennaio quando Carla Carnevali Finoli
cessava di vivere nella sua casa a Rongio di Mandello. Conosciuta e stimata, ha
lasciato un vuoto non facile da colmare. E ora i ricordi si rincorrono, ma
nessuno potrà mai dimenticare la sua personalità, la sua bontà d’animo e
il suo altruismo. Quello che segue è un
ritratto fedele quanto dettagliato di ciò che è stata Carla Carnevali, donna di
grandi ideali e di intensa umanità.
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Carla
Carnevali nasce l’11 marzo 1932 a Reggiolo, in provincia di Reggio Emilia, dove
vive fino all’età di 8 anni, ma tanto basta a farla definire emiliana ogni
volta che si presenta a qualcuno e a chiamare, in memoria della sua terra,
Emiliano l’ultimo figlio.
Ancora
piccolissima, viene affidata ai nonni materni perché è nato un fratellino e la
mamma non riesce a occuparsi di entrambi. I nonni hanno una drogheria in una
grande casa nel centro del paese e Carla passa buona parte del tempo in negozio
a osservare il nonno servire i clienti.
E’
un periodo felice. Il nonno, uomo mite e saggio, e la nonna, donnina dalle
buone maniere, non le fanno mancare niente, anzi la colmano di affetto e di ciò
che c’è in negozio può disporre come vuole: pescare a piene mani nel barattolo
delle caramelle, fare piccoli cartocci con la carta da zucchero con i quali
dispensa farina e granaglie a immaginari avventori.
La
guerra, però, rovina tutto. Il nonno fa
credito a molti, pochi restituiscono il dovuto, ben presto fallisce ed è costretto
a cedere l’attività. Intanto Carla, ormai in età scolare, raggiunge la famiglia
trasferitasi al Nord in cerca di lavoro. Il padre è stato assunto alla Gilera di
Arcore e la famiglia trova alloggio in una cascina vicina. Carla, che frequenta
le elementari, è una studentessa modello e - visti gli ottimi voti - i genitori
decidono di farle saltare la quinta elementare e, superato l’esame di
ammissione, scelgono di mandarla alle scuole medie delle Madri canossiane di
Monza.
Carla
ama molto sia l’istituto sia le suore che vi insegnano e lo frequenta fino a 17
anni, quando consegue il diploma magistrale.
Subito dopo inizia a insegnare come supplente. In bicicletta raggiunge
le scuole della Brianza che, di volta in volta, necessitano di una sostituta.
Spesso si trova in scuole di campagna dove i bambini del villaggio frequentano
tutti un’unica pluriclasse e lei, a 17 anni, deve tener testa anche a 40
bambini dai 6 ai 10 anni, ai quali impartire lezioni e compiti diversificati a
seconda dei vari gradi di apprendimento.
Ma
Carla non si spaventa: dove la chiamano va, in sella alla sua bicicletta che,
chi l’avrebbe mai detto, guida anche senza mani. Si getta anima e corpo nel suo
lavoro facendo anche cose d’avanguardia, tipo portare gli alunni in treno a
visitare Varenna, o denunciare un padre che picchia (più del lecito anche per
quei tempi) un alunno, bocciarne un altro perché non si applica e rischiare di
essere accoltellata dal padre che però, pensando che la maestra fosse stata
convinta a bocciare il bambino dal bidello, accoltella quest’ultimo.
Carla
vuol bene ai suoi alunni: ancora oggi nella sua casa ci sono album di foto in bianco
e nero di bimbi in grembiule e grossi fiocchi sotto il mento che guardano dal
banco o da antichi giardini di chissà quale sperduta scuola della Brianza.
Carla
ama i bambini in generale e, per tutta la vita, ne ricerca la presenza, forse
perché lei stessa conserva l’innocenza, il candore e la spensieratezza di
quella bambina alla quale era concesso affondare la mano nel barattolo delle
caramelle.
Passata
la trentina decide che vuole bambini suoi e così, conosciuto Giovanni Finoli,
un ferroviere anch’egli immigrato dal Sud, mette su famiglia e in dodici anni
arriveranno 5 figli.
Ovviamente
per Carla l’impegno dei figli e dell’insegnamento diventa incompatibile, così
decide di avvalersi della possibilità di quello che oggi siamo soliti chiamare
baby-pensionamento e, a 46 anni, lascia l’insegnamento. E’ in quel momento che
la famiglia decide di far costruire la casa dove poter stare tutti comodamente.
Sarà a Mandello (a Rongio per la precisione), dove già risiedono i suoi
genitori e due sorelle.
Carla
ha realizzato il suo sogno: fare la maestra, avere dei bambini e una casa tutta
sua. La vita della casalinga, però, mal si addice alla persona curiosa, colta,
dalla mente veloce e dalla fervida immaginazione che è, così scrive: diari,
racconti, novelle, disegna, dipinge, legge quotidiani, libri e riviste: sa
tutto quel che succede nel mondo, ma il mondo che l’attira di più è quello
racchiuso all’interno di ogni persona.
Spinta
da questa curiosità entra in relazione con tutti gli abitanti del paese:
vecchi, giovani, bambini e così, sapendo che è stata maestra, iniziano le prime
richieste di ripetizioni dai bambini del paese che hanno bisogno di un aiuto in
qualche materia scolastica. I primi a essere aiutati da lei nei compiti furono
i vicini di casa, ma quando cominciano i primi flussi migratori Carla non si fa
trovare inerme.
Nel
1992 nella frazione arrivano gli albanesi. Il paesello è stranito: chi saranno,
cosa vorranno? Carla non tentenna e organizza un comitato di accoglienza.
Raccoglie tre, quattro persone, le meno titubanti, e si presenta nella scuola
dove sono state alloggiate tre famiglie e chiede cosa si possa fare per loro,
di cosa abbiano bisogno. Loro, dignitosissimi, rispondono: “Abbiamo bisogno di lavorare”.
E’
un primo approccio. Da lì si instaureranno relazioni di conoscenza e amicizia.
Ovviamente i figli degli immigrati hanno bisogno di un supporto extrascolastico
perché non sanno l’italiano. Carla dà subito la sua disponibilità e, da quel
momento, casa Finoli diventa ufficialmente la casa dei compiti.
Tutti
i bambini che sono arrivati a Rongio a seguito di un flusso migratorio sono
passati da Carla. Chi per pochi giorni, la maggior parte per anni. Ma Carla non
si limita alla didattica. Da lei si chiacchiera, si fa merenda e le caramelle
sul tavolo, tra biro e quaderni, non mancano mai. E se la mamma di un bambino
ha un problema, ne parla con Carla e lei la indirizza verso una soluzione. Magari
il papà cerca lavoro e Carla chiede in giro se qualcuno abbia bisogno di un
lavorante, magari un parente cerca un alloggio ma è straniero e la gente non si
fida, allora Carla parla con il padrone di casa e si fa garante, oppure ospita
direttamente il bisognoso in attesa di una sistemazione più consona. Magari occorre
scrivere un biglietto d’auguri a una persona speciale o importante e non si
vuole sfigurare: Carla si fa raccontare la situazione e poi, con la sua bella
calligrafia di maestra, scrive parole così gentili e azzeccate che l’interessato,
leggendole, si commuove.
Non
si tira mai indietro, nemmeno se c’è da ospitare un bambino perché la mamma non
può tenerlo con sé perché deve lavorare lontano e così si instaurerà tra loro
un rapporto tale da farli considerare reciprocamente madre e figlio. E così, in
quasi quarant’anni, Carla ha accolto nella sua casa, nella sua vita, nella sua
storia, una moltitudine di persone che soltanto lei, che aveva una memoria
infallibile, potrebbe menzionare e contare, ma non lo ha mai fatto perché soffermarsi
sui calcoli non è mai stata una priorità: quanto tempo, quante risorse aveva
dedicato alle persone, per lei non era importante. Per lei era un piacere: mai,
mai e poi mai la si è sentita rinfacciare qualcosa a qualcuno. Lamentarsi della
fatica, della confusione, dell’impegno che avere sempre ospiti a casa comporta.
Tutti erano bene accetti: amici, parenti, amici degli amici, amici dei parenti,
parenti degli amici…. Il motto “nessuno è straniero in casa mia”, coniato
recentemente da importanti associazioni di volontariato, lei lo viveva già da
quarant’anni.
Al
di là del bene che può aver fatto (ognuno lo valuterà nel suo privato) il suo
più grande pregio, il più moderno ma anche il più antico, è stata l’accoglienza.
E il suo esempio più importante il coraggio e la tenacia di essere protagonisti
della propria vita. Perché per vivere da cristiani ci vuole parecchio coraggio.
Fervente
cattolica, devota e praticante, persona mite e gentile, generosa e accogliente,
era anche una leonessa anarchica. Una persona che pensava con la sua testa e
agiva di conseguenza senza bisogno del consenso di nessuno. Anche in punto di
morte quando una figlia, preoccupata che l’annebbiamento dovuto alla morfina le
impedisse di rendersi conto che intorno a lei c’erano tutti i figli e gli amici
più cari, le dice “Mamma, guarda che siamo qua tutti vicino a te, non devi
avere paura”, la sua risposta, in un ultimo attimo di lucidità teneramente
arrogante, fu: “Ma io non ho paura di niente!”. E quelle sono state le sue
ultime parole.
Una grande donna che ha saputo dare tutto il bene che aveva nel cuore. Un esempio per tutti.
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