Giulia Zucchi con il presidente Sandro Pertini al Quirinale: è il 1983. |
di Claudio Bottagisi
Ha combattuto in prima linea la lotta
di Resistenza. Quante battaglie si ritrovano ripercorrendo la vita della
mandellese Giulia Zucchi. E con quanta tenacia questa donna ha saputo poi
diffondere gli ideali dell’azione partigiana e i valori che la ispirarono!
Era
la fine degli anni Novanta quando “la Giulia” decise di raccontarsi attraverso
le pagine di un diario tutto da sfogliare. Il diario della sua vita. Un
percorso con tanti ostacoli, sempre superati con la determinazione e la volontà
di chi non vuole accettare la sopraffazione. E l’ingiustizia.
Quella
carezza sotto il mento con cui il presidente Sandro Pertini la congedò dopo
averla ricevuta nel 1983 al Quirinale e la lettera che Enzo Tortora le scrisse
prima di morire per denunciare “la buia notte della democrazia” che aveva
avvolto il Paese erano rimaste scolpite nella memoria di Giulia Zucchi, che non
esitava a definire l’8 settembre 1943 “la data più terribile e infame della
storia d’Italia”.
Un gruppo di partigiani a Era in una foto del 1944. |
Nel
libro Giulia - Un duro percorso di vita
da Somana a Poada dato alle stampe nel 1999 dall’Editoria grafica Colombo
di Valmadrera la mandellese, classe 1922, ricorda vari episodi della lotta di
Resistenza. Tra gli altri, questo: “Un giorno, mentre tornavo da Lecco con la
borsa carica di munizioni, sulla strada
davanti all’ex caserma dei carabinieri mi fermò un fascista di Mandello. Cosa
vuoi da me?, gli chiesi. Lui rispose: “Guardare nella tua borsa”. Allora io gli
dissi: “Guardaci pure, mi sono recata a Lecco a fare un po’ di spesa”. Convinto
dal mio atteggiamento sicuro, lui non guardò. Quel giorno presi un grande
spavento e, arrivata vicino alla Moto Guzzi, scesi dalla bicicletta e per
qualche minuto rimasi appoggiata al muro. Poi proseguii, arrivando fino a
Somana”.
Il diploma d'onore al combattente per la libertà concesso a Giulia Zucchi nell'84. |
Poi
un altro episodio: “Nel marzo del ’44 fui mandata a Milano per ritirare delle
armi che ci avevano procurato i Gap, i Gruppi di azione patriottica che ebbero
grandissimo merito nella lotta partigiana. Dovevo recarmi a San Siro in via Pellizza
da Volpedo… Caricai le armi in una valigia di dimensioni medie. Arrivata in
piazza Castello un repubblichino in borghese fece scendere tutti perché il tram
non proseguiva oltre. Si viveva nel terrore e nessuno protestò. Presi la mia
valigia e mi incamminai verso piazza della Scala per riprendere il tram… All’imbocco
di via Dante c’erano le macerie di un grande palazzo bombardato. E dalle
macerie partirono raffiche di mitraglia. Erano i gappisti che attaccavano un corteo fascista… Io proseguii con la
mia valigia. Avevo 22 anni e tanta voglia di liberare l’Italia. Ormai erano
diventati 100 i compagni che mi aspettavano lassù a Era.”.
Il diploma assegnato a Giulia Zucchi per la sua attiva partecipazione alla lotta di Resistenza. |
E
ancora: “I cittadini mandellesi ci aiutarono molto, altrimenti non avremmo
potuto resistere venti mesi in montagna. La nostra Brigata ha avuto il
privilegio di ospitare uno dei partigiani più giovani d’Italia. Sua madre
Fulvia Poletti, sorella del nostro comandante Lino Poletti, e suo padre Isidoro
Mauri, antifascista di vecchia data, avevano portato con loro il figlio Franco,
di soli 5 anni, per sfuggire alle rappresaglie fasciste. Quando di sera i
partigiani scendevano da Era per fare delle azioni, al ritorno si fermavano a
casa mia e io preparavo gnocchi di patate… Finito di mangiare, i partigiani si
incamminavano nuovamente verso Era. Quasi tutti a piedi nudi, perché scarpe non
ne avevamo… A Somana non si è mai visto, durante il periodo della resistenza,
un tedesco o un fascista. Appena in paese si vedeva un volto nuovo, tutti erano
in allarme. Quasi tutti avevano in montagna fratelli o parenti, così si stava
sempre molto attenti. E fortunatamente è andata sempre bene”.
Nel
libro-diario di Giulia Zucchi c’era quindi spazio per un intero capitolo
dedicato a Giovanni e Giuseppe Poletti, arrestati mentre percorrevano la strada
che portava a Molina. Giuseppe tentò la fuga che lo portò alla morte, Giovanni
fu portato al comando tedesco a Molina, torturato e fucilato all’esterno del
cimitero.
“Ci
chiamavano banditi - scriveva la Giulia - ma in realtà i banditi erano loro”.
Poi il racconto dell’attentato della Maiola dell’ottobre 1944 costato la vita a
Battista Morganti (il Brachèt),
Davide Gaddi e Adamo Gaddi, quest’ultimo morto nell’ambulatorio del dottor Stea
dove era stato portato a causa delle gravissime ferite riportate nello scoppio.
Infine lo scioglimento della Brigata e i giorni della Liberazione. E una
considerazione: “Purtroppo la vita ha il suo corso inevitabile e tutti gli anni
qualcuno manca all’appello, ma la storia dobbiamo tenerla viva. Il ricordo deve
restare anche per le giovani generazioni, per far sì che l’Italia rimanga
sempre uno stato democratico e libero”.
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